Cosa c’è dietro la ferocia di Hamas

by azione azione
13 Ottobre 2025

Mentre in Egitto si riaccende la speranza, uno sguardo al passato per capire le logiche del tragico presente

Riuscirà il piano di Trump a mettere fine al conflitto israelo-palestinese? Quando il giornale andava in stampa, venerdì mattina, si parlava del raggiungimento – a Sharm El Sheikh, in Egitto – della prima parte dell’intesa per la tregua. Ma lo sguardo e i pensieri del mondo sembravano già spostati sul futuro: si tratta di una vera soluzione? Quanto è plausibile che un’intesa dettata dal presidente americano rimuova due anni di mattanza e cancelli le logiche che l’hanno ingenerata, magari delineando un nuovo tempo depurato della memoria?

A Gaza e Tel Aviv la popolazione festeggia, ma il dolore rimane, con tutte le sue ombre. Il mondo islamico si allinea, con Pakistan, Indonesia e Turchia in prima linea, al piano di pace. Però la memoria e le sue ombre rimangono. E se le Forze di difesa israeliane promettono una tregua e di ritirarsi all’interno della linea gialla, e Hamas di disarmarsi e rilasciare gli ostaggi, già le autorità israeliane rammentano che Al Barghouti, eletto nelle liste di Hamas e suo portavoce dal 2002, non verrà rilasciato. Staremo a vedere. In ogni caso il passato non deve essere dimenticato, come le logiche sommerse che ne hanno determinato gli sviluppi.

Partiamo dalla dichiarazione di Andreotti del 2006: «Io credo che ognuno di noi, se fosse nato in un campo di concentramento, e da cinquant’anni fosse lì e non avesse alcuna prospettiva di poter dare ai propri figli un avvenire, sarebbe un terrorista». Aggiungiamo quanto asseriva Mandela: «Abbiamo provato a lottare contro l’Apartheid con gli appelli, le manifestazioni pacifiche, le proteste di piazza. Alla fine non ci sono rimaste che le armi e la violenza. Per questo siamo stati definiti terroristi». Da queste due affermazioni così lontane nel tempo, molti evincono che talvolta – non sempre – il terrorismo è l’esito disperato di chi non ha più armi con cui lottare. O se non altro di chi alla violenza finisce, disperatamente, per non poter rispondere che con la violenza. Nel caso della Palestina e delle sue ripetute Intifada, dapprima con le pietre e le fionde, poi con i guerriglieri armati dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e infine con i «fanatici di Allah» delle formazioni di Hamas, il processo è sempre stato lo stesso. E l’excusatio con la quale si suole ripetere «non voglio giustificare il terrorismo» è infine più che altro un abile raggiro per affermare: «Non lo giustifico ma lo capisco». Lasciando in una sorta di nebulosa il sottile distinguo tra «capire» e «giustificare» e quasi volendo intendere che «capire» equivalga a «giustificare». Non è il nostro caso.

Il terrorismo

Detto questo, veniamo a Hamas, che come molti sapranno non è che una costola dei Fratelli Musulmani in terra palestinese. Come nasce Hamas? Come ascende al potere? Come conquista le elezioni politiche del 2006? E per quali ragioni, se vogliamo «capirne» l’evoluzione, non avrebbe potuto svilupparsi se non con il concorso di almeno due fattori fondamentali? Il terrorismo palestinese nasce (primo fattore) dalla situazione nei campi-profughi, sorti, a partire dal 1948 (anno della Nakba, il Disastro, esodo forzato di centinaia di migliaia di palestinesi durante la guerra arabo-israeliana), dall’occupazione sionista delle terre palestinesi. Non dunque dal nulla ma, nella sua forma più remota, nel momento stesso in cui venne sancita la nascita dello Stato di Israele, che di fatto comportò lo sfollamento di oltre 700mila persone. Il «germe» venne dunque gettato allora. E da allora non fece che ingigantirsi e incattivirsi: vivere in «cattività» può infatti ingenerare, oltre alla collera, anche la «cattiveria».

Ma Hamas a quel tempo non esisteva. Né esisteva l’Olp né alcuna altra formazione siffatta. Esisteva solo una situazione pesantissima, la stessa che ne avrebbe un giorno determinata la scaturigine. Ed esisteva (e siamo al secondo fattore) Israele, che se oggi si proclama come il peggior nemico di Hamas, storicamente, almeno fino a tempi molto recenti, non lo è stato. O, almeno, non nei termini che ci vengono spesso proposti dai media. Se non altro perché per moltissimi anni Hamas fu per Israele – secondo la massima «il nemico del mio nemico è mio amico» – se non proprio un «amico», quanto meno un utilissimo strumento per fronteggiare quelli che erano i più consistenti nemici dello Stato ebraico: in primo luogo l’Olp, poi Al-Fatah (Movimento di liberazione nazionale palestinese) e in generale ogni possibile forma di concordia interna alla Palestina, «pericolosissimo» viatico alla nascita di uno Stato autonomo e alla soluzione «Due popoli due Stati».

Sposalizio tragico

Andiamo con ordine. Hamas nasce nel 1987, dopo ormai quasi quarant’anni dalla Nakba e a vent’anni dalla Guerra dei sei giorni. Nasce quindi 36 anni prima del 7 ottobre 2023. E nasce vent’anni dopo che i campi-profughi, a seguito della guerra del 1967, divennero veri e propri spazi concentrazionari, con baraccopoli ormai invivibili e stati di carestia e povertà comprovati, investiti da un crescente sentimento di rancore, non solo nei confronti di Israele, ma dello stesso Olp (fondato nel 1964), le cui promesse di riscatto rimasero lettera morta malgrado dalla Giordania, dove aveva impiantato una sorta di «Stato nello Stato», l’Organizzazione per la liberazione della Palestina promettesse a spron battuto la liberazione. Espulsi dalla Giordania nel 1970 («Settembre nero»), i leader dell’Olp capeggiati da Arafat si trasferirono in Libano, lasciando di fatto i campi-profughi palestinesi in uno stato di totale abbandono. E allora ecco che i due fattori sopra indicati arrivarono tragicamente a «sposarsi» con le conseguenze che abbiamo visto. Dopo un incidente tra un camion israeliano e un’auto, in cui perdono la vita cinque palestinesi, nel dicembre del 1987, scoppia la prima Intifada. E visto che Arafat, confinato a Tunisi, è considerato ormai un «traditore», i disperati della rivolta popolare decidono di eleggere un nuovo leader: lo sceicco, cieco e paraplegico, Ahmad Yassin, a sua volta abitante miserabile delle baraccopoli ed espressione quasi paradigmatica dell’ansia di riscatto. Oltretutto Yassin gode, da Fratello musulmano, del radicamento che il movimento ha conquistato, grazie ai suoi sostegni e alle sue opere pubbliche, in tutto il territorio palestinese.

Ma proprio qui interviene il secondo fattore: Israele non guarda male all’ascesa del movimento islamista. Tant’è che comincia persino a foraggiarlo. E allo stesso modo, da lì in avanti, considererà in un certo senso Hamas, in quanto espressione di una contrapposizione con l’Olp che non potrà portare che all’instabilità del Paese. Senonché, da questa costola dell’Islam politico, sarebbe nata una forza armata integralista tesa alla distruzione stessa di Israele, non solo alla ridefinizione concordata dei confini (com’era per l’Olp). Allora il gioco sarebbe sfuggito dalle stesse mani della governance israeliana, con tutte le conseguenze che conosciamo: dall’assassinio di Yassin nel 2004 a tutti gli eventi successivi, che la sua morte non fece che radicalizzare.