L’Afghanistan cerca spazio nello scacchiere globale

by azione azione
13 Ottobre 2025

Mentre i diritti all’interno del Paese vengono negati sempre più, Kabul sviluppa legami strategici con Mosca e Pechino

Le luci si sono spente di colpo, senza preavviso. Così come le televisioni, le radio e i telefoni. In  una notte di fine settembre, l’Afghanistan piombava di colpo dentro a una notte ancora più nera, ancora più lunga di quelle precedenti. Al posto del Paese, una pozza di silenzio e di oscurità, un’oscurità interrotta a tratti soltanto da fuochi e candele. Internet scomparso, aeroporti chiusi, telefoni fuori uso, bancomat bloccati, sistema bancario al collasso. Durante il blackout, durato un paio di giorni, i talebani non hanno fornito spiegazione alcuna. Prima hanno negato che ci fosse un blackout, poi si sono appigliati a problemi tecnici, infine a presunte «ragioni morali»: attraverso le Rete difatti le persone possono entrare in contatto con il pericoloso e peccaminoso resto del mondo. Intanto in tutto l’Afghanistan le voci si rincorrevano, fantasiose e incontrollate. Di base, nessuno credeva a una sola parola dei talebani. Sembrava una prova generale, dicevano tutti: un promemoria del fatto che lo Stato può staccare la spina quando vuole e riportare il Paese nel Medioevo. Il mondo ha guardato per un attimo, ha parlato dell’ulteriore privazione del diritto allo studio per donne e ragazze, poi ha distolto lo sguardo. Nell’oscurità, però, secondo i locali, la vera storia era altrove e andava cercata nel riassetto geopolitico che sta riportando l’Afghanistan al centro delle rotte del potere.

Le prime voci riguardavano Bagram, la base militare abbandonata dagli americani. Costruita dai sovietici, ampliata dagli Stati Uniti, lasciata in una sola notte prima della ritirata ignominiosa. Quando Donald Trump parla di «riprendere Bagram», non è soltanto retorica da comizio. Da Bagram, gli Stati Uniti potrebbero tornare a guardare dentro l’Asia centrale, esercitare pressioni sull’Iran, osservare la frontiera occidentale della Cina e tenere d’occhio il ventre meridionale della Russia. Rimane il posto di ascolto perfetto. I talebani lo sanno, ed è per questo che trattano Bagram come un trofeo. Riaprirla agli americani, anche sotto altro nome, sarebbe un suicidio politico. Eppure l’idea torna ciclicamente a Washington perché, in termini strategici, Bagram è l’unica casella sulla scacchiera che conta ancora. Anche se diventa operativa soltanto passando per il Pakistan. Ogni rifornimento, ogni sorvolo, ogni accesso dipende infatti dallo spazio aereo e dalla logistica di Islamabad. Karachi è la porta d’ingresso, i valichi di Torkham e Chaman le sue arterie interne.

Fantasma di cemento

L’Iran è chiuso, le vie del nord sono sotto influenza russa e cinese. Senza il Pakistan, Bagram resta un fantasma di cemento. Per questo Islamabad torna indispensabile. Washington lo sa, e lo tratta come un partner di necessità; il Pakistan lo sa meglio, e ne fa un’arma diplomatica: concede o nega passaggi, vende collaborazione in cambio di aiuti e riconoscimento. È la vecchia simmetria di interessi che, ogni volta, riporta gli Stati Uniti nella stessa trappola strategica. Nel frattempo, la Russia ha occupato silenziosamente lo spazio lasciato dall’Occidente, fino al punto di riconoscere i talebani come Governo legittimo. Ufficialmente per contrastare l’ISIS-K e stabilizzare la regione; ufficiosamente per proiettare influenza a sud, dentro un’Asia centrale fragile. L’Afghanistan non confina con la Russia, ma il Tagikistan sì: lì Mosca ha costruito la sua barriera, una rete di basi, droni e radar che sorvegliano il confine poroso con il nord afghano. È da lì che arrivano i segnali più inquietanti. Da anni, l’intelligence russa registra movimenti di uomini e armi lungo il corridoio afghano: tagiki, uzbeki, kirghisi partiti per la jihad e ora di ritorno, infiltrati nei territori ex sovietici. Per questo il Cremlino tratta con i talebani, li riconosce, li accoglie. Finché combattono l’ISIS-K, sono un male minore: in cambio, Mosca apre canali economici e promette investimenti.

Corridoi economici

Nel frattempo, la Cina si muove con discrezione, concentrata su rame, litio e corridoi economici, mentre l’Iran agisce ai margini, tessendo legami e scambi energetici e costruendo relazioni che trascendono la divisione secolare tra sciiti e sunniti. Con i talebani, Teheran ha scoperto una convergenza di interessi più forte delle differenze dottrinali. Entrambi vogliono la fine della presenza americana nella regione, entrambi diffidano dell’ISIS-K, che considera eretici gli uni e traditori gli altri. In questa intesa prudente si percepisce anche l’ombra di Mosca, che con entrambi mantiene un dialogo costante: con l’Iran per necessità energetiche e militari, con i talebani per contenere l’instabilità che risale dal sud. La Russia spinge perché Teheran e Kabul non si scontrino, ma si bilancino. Così, pur partendo da tradizioni opposte, Iran e talebani condividono oggi una postura simile: anti-americana, anti-islamista radicale e sostanzialmente allineata al disegno russo di un ordine post-occidentale. E l’Afghanistan torna così a essere ciò che è sempre stato: un campo intermedio tra imperi, una frontiera dove la geografia decide più della politica. Il potere formale è dei talebani ma ogni decisione passa per altri centri: Mosca a nord, Teheran a ovest, Pechino a est, Islamabad a sud. Washington osserva, calcola e tenta di rientrare dal corridoio che da Karachi porta a Bagram. Intorno, le ex Repubbliche sovietiche oscillano tra paura e opportunismo. I talebani, dal canto loro, hanno imparato a vendere stabilità come una merce. Offrono calma ai vicini in cambio di riconoscimento, sicurezza in cambio di investimenti. La Russia vuole frontiere tranquille, l’Iran un disordine gestibile, la Cina silenzio lungo il Wakhan. Tutti pagano in valuta diversa: gas, infrastrutture, legittimità. Il blackout ha mostrato che i talebani possono spegnere il Paese e riaccenderlo quando serve, per chi serve. Intorno, le potenze ridisegnano la mappa. L’Afghanistan non produce stabilità, la vende. E sopravvive, come sempre, nel disordine che promette di contenere.