Le forme future dell’acqua

by Claudia
3 Marzo 2025

A Zurigo è in corso una mostra multidisciplinare sulle possibili soluzioni alle crisi idriche del nostro tempo

Architettura, design, ingegneria dei materiali ma anche videoart e fotografia d’arte. Il Museum für Gestaltung di Zurigo, nella sede Toni-Areal propone una mostra interdisclipinare per fare il punto sul nostro rapporto con l’acqua e per proporre soluzioni innovative alle sfide che ci attendono nel prossimo futuro. Climatologi e ricercatori ci avvertono da anni sulle conseguenze dei cambiamenti climatici: lunghi periodi di siccità, desertificazione, inquinamento stanno mettendo in pericolo l’approvvigionamento idrico in molte parti del mondo. L’acqua è fonte di vita, ma abbiamo imparato a conoscere anche la sua forza distruttiva sottoforma di precipitazioni e inondazioni, fenomeni sempre più frequenti e sempre più violenti, senza contare la minaccia rappresentata dall’innalzamento dei livelli del mare che già inghiotte atolli nel Pacifico (terre destinate a esistere soltanto nel metaverso, come l’isola nazione di Tuvalu che i visitatori possono visitare virtualmente a una postazione PC).

La mostra, articolata in grandi capitoli tematici, presenta 65 progetti e lavori che costituiscono un unico grande viaggio che ha il suo punto di partenza nella storia, con una ricognizione dei rapporti intercorsi tra civiltà di tutto il mondo e l’acqua: dagli acquedotti degli antichi romani all’India del (nostro) basso Medioevo con le sue stupefacenti fontane a gradini in forma di piramidi rovesciate destinate alla raccolta dell’acqua piovana – sistema oggi rivalutato – fino alle imponenti soluzioni architettoniche e ingegneristiche adottate dalle grandi capitali europee per smaltire le acque reflue nel XIX secolo. Rivoluzione industriale, colonialismo e commercializzazione dell’acqua cambiano per sempre gli equilibri: da risorsa da tutelare per i suoi aspetti simbolici, psicologici e fisiologici (ce lo ricordano i reportage fotografici sui bagni collettivi nel Gange o i flaconi di acqua di Lourdes), l’acqua diventa risorsa da sfruttare.

Capitalismo e globalizzazione hanno avuto conseguenze disastrose per gli ecosistemi nel Novecento: possiamo ripercorrere la tragica sequenza delle catastrofi causate dai naufragi delle grandi petroliere fino alla scoperta delle dimensioni preoccupanti dell’inquinamento dei mari; nel 1997 si scopriva l’esistenza del Great Pacific Garbage Patch, oltre 1,6 milioni di kmq di residui plastici galleggianti tra le Hawaii e la California.

Nella mostra emergono statistiche e numeri a cui non si può restare indifferenti – l’85 per cento dell’acqua dolce destinato all’agricoltura e allevamento e ai settori della produzione industriale. Un dato che si traduce visivamente nel reportage fotografico di Tom Hegen con le vedute dall’alto delle serre nella regione spagnola di Almeria, che possiedono anche una strana bellezza compositiva di quadri astratti. Entro il 2050 il consumo di acqua globale aumenterà del 25 per cento e il fabbisogno di cibo del 50 per cento e tra pochi decenni il 70 per cento della popolazione mondiale si concentrerà nelle città.

Di fronte a tali prospettive la scienza – dalla botanica alla chimica dei materiali alla microbiologia – si unisce all’arte, al design e all’architettura, in una feconda ibridazione che è in grado di fornire sguardi nuovi sul rapporto con un elemento con cui siamo intimamente connessi fin dalla nascita per immaginare soluzioni sostenibili. Già disponibili e sperimentate: come le Jellyfish Barges, progetto italiano di serre galleggianti per culture idroponiche. In Danimarca è stato testato con successo il Climate Tile, un sistema di pavimentazione urbana in grado di assorbire parte dell’acqua piovana, per alleggerire il sistema fognario e per irrigare nuovi spazi verdi. Per le metropoli del sud del mondo, come Lagos, la sfida è ancora più grande; e la soluzione ai gravi problemi di inquinamento, di erosione della costa, della mancanza di acqua potabile e canalizzazioni inadeguate, può partire da una semplice tecnica edilizia che recupera sistemi e materiali tradizionali per realizzare edifici galleggianti; sono i principi alla base della Makoko Floating School progettata dall’architetto e urbanista nigeriano Kunlé Adeyemi, promotore dei così detti «waterscrapers», convinto che sia necessario «imparare a convivere con l’acqua, non a combatterla». Architetti, designer e ricercatori in chimica dei materiali immaginano facciate di edifici intelligenti e reti di distribuzioni idriche organiche, simili a un sistema arterioso, per la città di Londra. In molti casi si tratta di interventi minimi e puntuali, ma dal grande impatto: i «frangiflutti viventi» al largo della costa di Staten Island devastata dall’uragano Sandy nel 2012 per aumentare la resistenza delle coste, un nuovo modello di una toilette a secco nel progetto finlandese Huussi o di un (poetico) collettore di nebbia che produce minuscole gocce d’acqua. L’obiettivo comune è costruire futuri resilienti, un termine che ricorre in tutto il percorso espositivo come un filo conduttore; la mostra pone infatti continuamente domande ai visitatori attraverso postazioni interattive («Il futuro diventerà più sostenibile promuovendo la paura e la morale?», «Come sviluppare una cultura della cura?»). Ma presenta anche lavori di artisti come la fotografa americana Rose-Lynn Fischer, autrice di una sorprendente topografia delle lacrime che include una serie di ingrandimenti di immagini al microscopio di lacrime scaturite da emozioni diverse, come il rimpianto, la rabbia o la tristezza. I disegni in acrilico e i murales della slovena Marjetica Potrč si ispirano a importanti battaglie giuridiche per i diritti dell’acqua e alla recente decisione della Slovenia di inserire nella propria Costituzione il diritto fondamentale di accesso all’acqua potabile; in uno dei disegni che integrano testo e figure in una composizione fluida il fiume Soča prende la parola rivendicando la sua identità di essere vivente, statuto che implica anche un rinnovato patto tra esseri umani e natura perché in fondo «abitiamo una casa comune».