Vent’anni di ritagli del dolore nell’opera di Moira Ricci

by Claudia
11 Novembre 2024

Fotografia: l’incontro tra forma d’arte e circostanze di vita, in esposizione al Mufoco di Milano, fa riflettere su come l’immagine possa fungere da mezzo per affrontare l’assenza e abbattere il muro del tempo

«Così, solo nell’appartamento nel quale era morta da poco, io andavo guardando alla luce della lampada, una per una, quelle foto di mia madre, risalendo a poco a poco il tempo con lei, cercando la verità del volto che avevo amato. E finalmente la scoprii. […] Attraverso ognuna di quelle immagini, infallibilmente, io andavo oltre l’irrealtà della cosa raffigurata, entravo follemente nello spettacolo, nell’immagine, cingendo con le mie braccia ciò che è morto». Così, scrisse tra le pagine de La camera chiara, il critico e semiologo Roland Barthes. Affermazione che, mai come nell’opera più nota di Moira Ricci, risuona profondamente. Opera composta da una selezione di cinquanta fotografie realizzate tra il 2004 e il 2014, ed esposta fino al 1. dicembre al Mufoco (Museo di fotografia contemporanea) di Milano in una mostra intitolata 20.12.53 – 10.08.04 a cura della storica e critica della fotografia Roberta Valtorta, con la quale, in una recente serata pubblica alla Casa delle donne di Milano, la fotografa ha conversato, con la moderazione di Gigliola Foschi, critica d’arte della fotografia.

Moira Ricci, nata in Maremma a Orbetello nel 1977, oggi si inserisce nel panorama della fotografia contemporanea come una voce di intensa introspezione e ricerca identitaria. «Due sono i temi principali su cui lavora Moira Ricci – ha spiegato Roberta Valtorta – e sono il rapporto con la sua terra e quello con gli affetti familiari, in particolare con sua madre e suo padre».

È ancora in piena ribellione adolescenziale, quando la Ricci rifiuta l’invito-ricatto di mamma Loriana di iscriversi all’accademia di danza, scuola che le avrebbe pagato, al contrario dell’Accademia delle belle arti a Milano. Negli anni di studio tornerà al suo paese solo di tanto in tanto, un fine settimana al mese, o ogni due mesi: «Ogni volta che tornavo giù da Milano – racconta Moira Ricci – mi ritrovavo sempre qualcosa di nuovo che mia mamma comprava, perché non vedeva l’ora di ristrutturare casa, di farla più grande; era come se mia mamma mi stesse staccando dal mio passato, e quindi ho ricostruito la mia casa che non avrei mai più rivista, e l’ho fatto usando scatole delle scarpe, con urgenza, prendendo della carta da parati, e ritagliando in modo grossolano le immagini: per me era importante farlo in fretta per ricostruire la mia casa prima che venisse cancellata per sempre». Ma l’artista non si è limitata a ricostruire un modellino abbozzato in tre D di quattro stanze (bagno, cucina, cameretta e salotto). Ha voluto anche farle ri-abitare da tutte le Moire che ha ritrovato nel suo album, Moire fotografate dalla mamma proprio in quei locali, da piccina fino all’adolescenza: «Le ho scansionate, ristampate e poi attaccate su dei cartoncini inserendomi nelle stanze».

Il progetto – che risale al 2001 e si è fatto video, inglobando voci di bambini in loop, oltre che installazione – viene molto apprezzato, ma non quanto il lavoro che consacrerà Moira Ricci come artista, rendendola nota. Opera scaturita dalla morte della madre, avvenuta la notte di San Lorenzo, il 10 agosto del 2004, che pure determina la seconda parte del titolo della mostra, a ridosso della data di nascita. Morte che ebbe luogo, guarda caso, a seguito di un incidente domestico proprio durante la ristrutturazione della casa. Dedicata alla memoria e alla perdita della madre, l’opera, dunque, torna a esplorare temi universali come la relazione tra presente e passato, ma soprattutto rimette in gioco il tentativo di preservare la memoria attraverso le immagini.

La Ricci, in preda al dolore, affronterà questa perdita, per i successivi dieci anni, con una creatività inusuale e non progettata, ma frutto di un suo estremo bisogno, che la vede trasformare il proprio lutto in un processo artistico, il quale si fa forte della ricerca non di una ragione, ma di una variante della realtà: «Quando mia madre è mancata all’improvviso, io non potevo accettare la realtà. Non sembrava possibile. Così sono andata a cercare le sue foto, perché nelle foto lei era ancora viva».

Tornando a Barthes, se il semiologo resta affranto davanti al limite posto dal tempo (da una parte l’immagine con la madre ancora in vita, dall’altra un presente senza di lei), la Ricci sfonda – di nuovo – quella barriera per tentare l’impossibile: ricreare un legame all’interno dello stesso spazio temporale con un atto di presenza forzata che le consenta non solo di affrontare il dolore, ma forse anche di salvare la madre dalla morte, preannunciandogliela.

Da una parte, infatti, Moira Ricci, quando avvia il progetto, utilizza la fotografia per accedere a momenti perduti e mantenere viva la presenza della madre scomparsa, dall’altra spera di poter «andare dentro le foto e riuscire a prenderla e portarla fuori, così l’avrei salvata»; non potendolo fare, decide di inserirsi nelle vecchie stampe della madre, ritratta in momenti di vita quotidiana, di viaggi, di eventi speciali, dell’infanzia e della prima giovinezza, per avvisarla di quanto accadrà in quel futuro che lei ormai già conosce: «Per questo, negli scatti in cui mi sono inserita, tengo lo sguardo di una persona che sa che succederà qualcosa di brutto: non potendo parlare dentro alle fotografie, dovevo assumere un atteggiamento ammonitore» sperando che prima o poi la madre percepisse il pericolo, evitandolo…

Ed ecco svelata la ragione per cui nelle cinquanta fotografie esposte al Mufoco compare sempre anche Moira Ricci: «Mi sono messa insieme a loro, a tutte le persone che sono nelle foto, prendendo posto laddove potevo stare senza intralciare nessuno, per rispettarli, per rispettare proprio la foto, adattandomi anche al tempo: ho cercato di vestirmi e acconciarmi secondo gli anni dello scatto, copiando un po’ anche mia mamma, nella semplicità che aveva lei nel vestirsi. Non ho voluto comperare nulla di nuovo, per cui a volte usavo proprio i suoi abiti, e persino le sue scarpe; l’unica cosa diversa è questa mia attenzione che ho su di lei; volevo proprio che con la forza del mio sguardo lei capisse. Così mi sono fotografata (ndr. ancora non era in voga il selfie) tante volte con una macchinetta a 4 megapixel, piccolissima, in digitale, e con un telecomandino: scattavo una foto dopo essermi messa in posa vicino alla mamma; al suo posto, una scopa oppure il cavalletto, per capire dove e come posare lo sguardo su di lei». Tutto questo dopo aver studiato luci, ombre, colori, contesto, posture, look, meteo, umori, stagione eccetera.

Le immagini hanno delle dimensioni che rispettano quasi tutte l’originale, pur essendo frutto di un sapiente miscuglio di analogico e digitale, a segnare forse una delle prime esperienze significative in Italia di un’artista capace di dare un senso creativo e innovativo alle nuove tecnologie, come ha tenuto a sottolineare Roberta Valtorta.

Le mostre, di questo lavoro di lunga durata, iniziarono subito; la prima già nel 2005 quando aveva solo nove immagini. Non è sempre stato facile, dovendo gestire un carico intimo ed emotivo così intenso, ma Moira Ricci ha continuato a sfidare la linearità del tempo, nonostante le molte crisi esistenziali. E lo ha fatto forse rendendosi conto che il suo lavoro non è solo un viaggio personale, ma è il tentativo di restituire forma visiva a una emozione condivisibile: «La fotografia non restituisce la vita, non riporta indietro chi abbiamo perso» ammette Ricci, ma attraverso uno sguardo autentico e diretto, le sue opere riescono a trasmettere un senso di partecipazione collettiva, e spingono a riflettere sull’importanza delle relazioni e sull’eredità emotiva che ognuno porta con sé. La sua poetica diventa così un potente strumento di esplorazione, capace di evocare sentimenti e ricordi che echeggiano in chi osserva, dimostrando che, attraverso l’arte, è possibile trovare un senso di connessione e comprensione, anche nelle esperienze più dolorose: «Quando espongo, spesso mi trovo a parlare con persone che hanno vissuto esperienze simili e che trovano nel mio lavoro qualcosa che risuona con le loro storie» dice, evidenziando il potere della fotografia di dialogare con chi ne fruisce, al di là delle ragioni che stanno alla base dell’atto creativo.

Dove e quando
Moira Ricci, 20.12.53-10.08.04, Cinisello Balsamo (MI), Museo di fotografia contemporanea (Villa Ghirlanda, via Frova 10). Fino al 1. dicembre 2024. Orari: me-ve 16.00-19.00; sa e do10.00-19.00; info: info@mufoco.org