Una nemesi storica. Negli ultimi scampoli della campagna presidenziale americana, Dana, dea vendicativa e potente, ha scatenato l’inferno pluviale su Valencia. Con questo nome da signora dell’Olimpo (simile a Danae, che fu fecondata da Zeus con una pioggia d’oro), Dana è in realtà un fenomeno meteorologico generato da un accumulo d’aria fredda che prima forma una depressione e poi va a scontrarsi con una massa di aria calda, generando infine piogge non d’oro (magari!), ma d’acqua, provocando alluvioni inaudite.
La conta dei morti e dei danni in Spagna lascia sbalorditi. E se l’Europa ha vissuto l’evento con dolorosa apprensione, nel frattempo l’America si è occupata quasi solo della tempesta politica che ha diviso in due il Paese, regalando infine una netta vittoria a Trump. Una «dimenticanza», quella sulla crisi climatica, che neppure l’uragano Milton abbattutosi sulla Florida oltre un mese fa è riuscito ad aggiustare. Negli scorsi mesi, del riscaldamento globale e dei suoi effetti né Trump né Harris hanno fatto menzione. O quasi.
Nel «discorso della vittoria» mercoledì scorso, Trump ha sì parlato del problema climatico ricordando l’uragano che aveva colpito la Carolina del Nord. Ma non l’ha fatto per sottolineare l’emergenza globale, bensì per lodare l’amico Elon Musk, che aveva offerto un sistema di comunicazione alternativo, visto che quello regolare era saltato. Del resto, quest’estate, sul social X (ex Twitter) c’è stata un’intervista proprio di Musk a Trump, in cui il prossimo presidente Usa era riuscito a dire che «con il riscaldamento globale avremo più ville fronte oceano». Il tycoon repubblicano, del resto, considera il surriscaldamento globale una colossale bufala. E col potere conferitogli dal rinnovo della carica presidenziale, le prospettive per il futuro del clima si fanno ancora più cupe.
Sia chiaro, non è che con Kamala Harris ci sarebbe stata una svolta. Da senatrice aveva sostenuto il piano di riduzione massiccia delle emissioni di gas serra. E da procuratrice aveva citato in giudizio aziende produttrici di idrocarburi come Chevron, BP, ConocoPhillips e Phillips 66. Come vicepresidente, tuttavia, è stata assai cauta e in campagna elettorale ha semplicemente schivato l’argomento.
Insomma, l’agenda politica americana, e non solo, ha messo in un angolo quella che appare la maggiore emergenza planetaria in corso. In prospettiva peggiore persino delle guerre in Ucraina e nel Medio Oriente, altro tema abbastanza negletto nella campagna presidenziale statunitense, malgrado le promesse di Trump di farle cessare (magari!). È una tendenza che avevamo già notato alle ultime elezioni europee, che si sono rapidamente rimangiate il «patto verde» che aveva caratterizzato il precedente mandato.
Ecco perché i disastri ambientali sembrano una nemesi storica. Nella mitologia greca e latina il termine «nemesi» indica infatti la personificazione della giustizia distributiva che, come indica il vocabolario Treccani, è «punitrice di quanto, eccedendo la giusta misura, turba l’ordine dell’universo». La «nemesi storica», indica perciò avvenimenti «che sembrano quasi riparare o vendicare sui discendenti antiche ingiustizie o colpe di uomini e nazioni». Peccato che a pagare siano degli innocenti.
Rattrista che l’emergenza climatica resti in coda ai programmi delle più alte istanze di potere, America in primis. Così, le sciagure in Spagna, come prima in Florida, in Emilia e – per stare in casa nostra – in Mesolcina, in Vallemaggia e in Vallese suonano quasi come un tragico sberleffo ai potenti, un richiamo ancora inascoltato alle loro responsabilità nei confronti dei destini dell’umanità e del suo Paradiso perduto.