Nell’ottobre del 1925 a Locarno si era ormai convinti che il Vecchio Continente si fosse lasciato alle spalle i demoni della Grande Guerra del 14-18. Anche gli ultimi, incattiviti contrasti tra la Francia e la Germania si erano in parte attenuati dopo il ritiro delle truppe franco-belghe dal bacino della Ruhr, occupato militarmente nel 1923 per costringere Berlino a onorare le riparazioni di guerra imposte dal trattato di Versailles. Il clima appariva propizio, quasi euforico. Anche la Svizzera si vedeva protagonista, e non più comprimaria, in quello straordinario sforzo di ricostruzione e di riconciliazione in atto tra le grandi potenze. A suprema garante dell’impresa agiva la Società delle Nazioni, istituita nel 1919, il cui statuto prevedeva princìpi che anche la guardinga Svizzera non poteva non approvare: «Favorire la collaborazione delle Nazioni e assicurare alle medesime la pace e la sicurezza coll’impegno di non ricorrere alla guerra, lo stabilimento fra i popoli di rapporti palesi, giusti e onorevoli, il fermo riconoscimento delle regole del diritto internazionale come norme effettive di condotta fra i Governi, l’osservanza della giustizia e il rispetto scrupoloso di ogni trattato nelle relazioni reciproche dei popoli».
Questa era l’atmosfera, anche nella cittadina sul Verbano, che gli osservatori convenuti definirono «eccellente». Anche se gli Stati Uniti non aderirono alla SdN, ritennero opportuno contribuire alla pacificazione dell’Europa in vari modi, sia sul piano economico, sia sul piano politico-diplomatico, non opponendosi all’ingresso nel consesso della Germania (ammessa nel 1926). Ulteriore ottimismo suscitò la vibrante condanna della guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti (patto tra il francese Briand e l’americano Kellog nel 1928).
«Come andò a finire» è noto; sappiamo che quell’era di pace non ebbe lunga vita e che si infranse sugli scogli dell’iperinflazione tedesca, del crack del 1929 e delle successive convulsioni politiche che alla fine spianarono la strada all’ascesa di Governi dittatoriali, regimi che ben presto trascinarono il Continente in un nuovo, terrificante baratro. La neutralità differenziata adottata dalla Confederazione (o differenziale, come capita di leggere nelle cronache del tempo) pareva la quadratura del cerchio: ottenere l’esenzione dalle operazioni militari decise dalla SdN, ma partecipare alle sanzioni economico-commerciali, ch’erano però da considerare anch’esse un’arma, stando a quanto il presidente americano Wilson aveva dichiarato nel 1919: «Qualcosa di più tremendo della guerra». La Svizzera non fece mancare la sua collaborazione, ma controvoglia e con sempre minor zelo. L’uscita dalla SdN della Germania e del Giappone nel 1933, dell’Italia (1937) e della Spagna (1939) indussero la Svizzera a ripiegare sulle vecchie posizioni. Con le parole di Giuseppe Motta, capo del Dipartimento politico (affari esteri): «Non vi sarà più in avvenire una neutralità differenziale. Essa ridiventa ciò che è stata da secoli, totale e perpetua». In precedenza polemiche roventi aveva destato l’aggressione dell’Italia fascista all’Abissinia: fatto che Berna si rifiutò di condannare, riconoscendo anzi celermente la sovranità dell’Italia sul Paese africano.
Gli anni Venti furono certamente attraversati da grandi speranze. Ma già in quella fase erano emersi dubbi sulla via che Nazioni come la vicina Italia avevano imboccato con Mussolini al potere, tra il delitto Matteotti e il varo delle «leggi fascistissime». In Svizzera, con la votazione del 16 maggio del 1920 per l’adesione alla SdN, era apparso sulla scena un tarlo che avrebbe lavorato in profondità anche nei decenni successivi: il tarlo della diffidenza nei confronti delle istituzioni sovranazionali, molto diffuso e operoso nei Cantoni tedescofoni. Allora il Ticino espresse invece un voto favorevole, quasi unanime: 84,8%: un picco mai più raggiunto nei decenni successivi su questioni riguardanti la politica estera. Anzi, nel secondo dopoguerra le proporzioni si invertirono, sospingendo il Cantone nel campo del no… a prescindere. No all’ONU nel 1986 (65,5%), no allo Spazio economico europeo nel 1992 (61,5%), di nuovo no all’ONU nel 2002 (58,7%), e sempre e comunque no ai Bilaterali nelle sue varie versioni e formulazioni. Con tanti saluti all’«esprit de Locarno».