Il coraggio delle donne di Kibera, in Kenya, che lottano per i loro diritti tra baracche, miseria e violenza estrema
L’autista dopo essersi infilato in una stradina laterale di Kibera, lo slum della periferia di Nairobi e il più grande di tutta l’Africa, mi lascia all’indirizzo indicato. Timoroso, non vuole neanche scendere dall’automobile. Intorno un brulicare di persone: ragazzi corrono con gli scooter, bambini giocano per strada, ai lati piccole rivendite di frutta e generi alimentari. Nato nei primi anni del secolo come un insediamento coloniale degli inglesi, oggi riunisce 12 villaggi in soli 2,5 chilometri quadrati. Ci abitano tra 250mila e 2,5 milioni di persone, a seconda delle fonti. È la terra desolata degli ultimi, che vivono dentro baracche da 4 metri per 4 fatte mura di fango e tetti di lamiera, sopra un pavimento di terra, senza servizi igienici e acqua potabile – una sola latrina ogni 50 tuguri – con continue epidemie di colera e percentuali altissime di HIV. Il cinquanta per cento delle persone che abita qui è disoccupato; c’è una forte criminalità ; abuso di droghe e alcol, distillati illegali e pericolosi come il micidiale chang’aa (ricavato da miglio, mais e sorgo); l’aspettativa di vita è di 30 anni e, a causa delle violenze sessuali, una ragazza su due tra i 15 e i 24 anni rimane incinta prematuramente.
Ma c’è anche chi resiste agli stupri e alla malora dei giorni, forme di auto-organizzazione e resistenza, artisti e gruppi teatrali, così come le donne di Feminist for peace che si battono contro la violenza di genere, sostenute dall’Agenzia donne dell’Onu e anche dall’italiana AICS di Nairobi. La loro sede di si trova al pianoterra di uno stabile, superato l’ingresso c’è la sala riunioni dove mi aspetta Editar Adhiambo Ochieng, leader del gruppo, una giovane donna corpulenta e battagliera, lo sguardo intenso, insieme alle sue compagne. «Eravamo un gruppo di donne e ci sentivamo oppresse», esordisce, «qui c’è una società molto patriarcale, anche solo parlare in pubblico non ci era concesso», racconta. «Così, dieci anni fa hanno creato questa associazione informale, «su trenta di noi, ventotto avevano subito delle violenze, sessuale oppure fisica, raccontandoci le nostre storie abbiamo iniziato ad analizzare il trauma».
Emancipazione economica
Juliet, minuta e dai modi dolci, mi spiega che qui danno sostegno alle donne che hanno subito violenza, con problemi di gravidanza o di salute mentale, forniscono informazioni su pace e sicurezza, «ma le aiutiamo anche a sviluppare stili di vita più sostenibili e ad emanciparsi economicamente». Coinvolgono anche i ragazzi, per diffondere quella che definisce «una mascolinità positiva», «li aiutiamo ad essere maschi senza il machismo», dice divertita, usando principalmente i giochi da tavolo, «è un modo ludico che usiamo per parlare di temi difficili come la violenza di genere». Ma questo è anche un centro di accoglienza: «Diamo asilo alle donne che hanno subito violenza, qui possono essere visitate da un medico, avere un supporto psicologico e una cura legale», ma non possono restare più di 48 ore. L’idea è quella di creare una «comunità di sopravvissute». «Aiutiamo queste donne a sentirsi meno sole in un momento in cui vedono tutto nero», aggiunge.
May – una donna possente, le unghie appuntite e smaltate di un rosso vivo, i capelli folti – cerca di spiegarmi la meccanica sociale, il buco nero che avvolge questo slum maledetto. «Qui a Kibera la grande disoccupazione crea livelli di povertà e di stress molto forte. Si vive in ambienti malsani e senza privacy, e poi tra le persone c’è un terribile sentimento di disperazione». Picchiare una donna è normale, fa parte della cultura tradizionale, «anche le donne la percepiscono come la normalità , e poi per come è fatto questo posto mancano luoghi sicuri», sostiene, «se una di noi viene picchiata, denuncia il proprio compagno, poi la notte deve tornare nella baracca, non c’è un altro posto dove può chiedere asilo. E magari quando fa ritorno viene bastonata di nuovo». Durante le elezioni la violenza aumenta nelle strade e dentro le case del quartiere, la polizia diventa più aggressiva, «i partiti di potere danno soldi alle gang giovanili per essere votati, e questi ragazzi comprano alcol, si drogano e poi se la prendono con le donne». Dice che a Kibera molti bambini vivono da soli perché i genitori li hanno abbandonati, oppure sono sempre ubriachi, «sono loro a tenere in piedi la famiglia, ma a volte non hanno niente da mangiare, allora sono costretti a vendersi».
Circondati da quartieri ricchi
May è convinta che la povertà qui sia il peggiore dei mali: «Se molti avessero un lavoro potrebbero avere una esistenza migliore, non si stordirebbero con droghe e alcool per affrontare la vita che è durissima, e poi ci fanno stare in questi tuguri, ma siamo circondati da quartieri ricchi, la violenza è frutto anche di questa pianificazione urbana». Quartieri di sontuose ville e giardini come Karen, che prende il nome dalla scrittrice danese Blixen che in un cottage oggi diventato museo visse e scrisse La mia Africa, «tutto questo è voluto dal Governo centrale, farci vivere con meno di un dollaro al giorno, capisci?»
Editar Adhiambo Ochieng è nata nelle strade di questo quartiere e racconta: «Quando abbiamo iniziato eravamo viste come nemiche della gente, nella Bibbia devi perdonare 70 volte 7» ci dicevano, «lo dice Gesù Cristo a Pietro. Allora rispondevo: invece non devi perdonare affatto se tuo marito ti bastona!». Agguerrita come poche mi dice che le sue vere eroine, quelle che le danno la forza per lottare, non sono le «stelle nere» Angela Davis e la poetessa statunitense Audrey Lorde, oppure Hope Nankunda, l’attivista ugandese. «Ad ispirarmi sono le donne di Kibera che come me hanno subito violenza, donne che conosco sin da quando ero bambina, e so che sono state stuprate, hanno tirato su i figli, sono state abbandonate, eppure non si sono mai arrese, sono qui in piedi, con tutta la loro forza e il loro coraggio».
Il safari umano
Quando esco dallo stabile l’autista mi sta aspettando nel vicino parcheggio, prendo posto sul sedile al suo fianco e poi parte attraversando cauto le piccole strade polverose. C’è sempre una grande energia in questo quartiere, nelle viuzze sterrate tra le baracche, e una calma apparente, irreale, che nasconde la violenza, il dolore dei margini. E quando scende la notte cresce la paura per gli incendi. Adesso vengono qui anche i turisti a fare dei «safari umani», pagando un biglietto passeggiano con gente del posto per le vie a vedere dal vivo questi poveri cristi. Ma come ha detto uno di loro che vive qui da molti anni a un quotidiano: «Kibera non è un parco nazionale e noi non siamo animali selvatici».



