Sono cresciuto nel mito del giornalismo d’inchiesta americano: quello che costrinse Nixon alle dimissioni per lo scandalo Watergate, che pubblicò i Pentagon Papers smascherando le menzogne sulla guerra in Vietnam, che con il Team Spotlight del «Boston Globe» rivelò gli insabbiamenti degli abusi sessuali nella Chiesa cattolica, che fece esplodere lo scandalo #MeToo e il caso Weinstein grazie alle inchieste del «New Yorker» e del «New York Times».
Oggi, quelle stesse testate mantengono una linea abrasiva nei confronti di Trump, scarnificando le sue politiche antidemocratiche. Ma pagano pegno: l’attuale amministrazione ha intentato cause per 15 miliardi di dollari contro il «New York Times» («ha mentito per decenni sul vostro presidente preferito (IO!), sulla mia famiglia, sui miei affari, sul movimento America First, sul MAGA e sulla nostra nazione nel suo complesso») e per 10 miliardi contro il «Wall Street Journal» (per la pubblicazione di una lettera di auguri per i 50 anni di Jeffrey Epstein, che secondo Trump è falsa e farebbe parte di una campagna diffamatoria).
La strategia è chiara: usare le cause legali come armi politiche e mediatiche, anche quando poggiano su basi fragili, per inibire i media critici, rafforzare la narrativa delle «fake news» e nel frattempo intascare qualche milioncino di dollari (finora oltre 30 quelli incassati). Così, alcuni grandi giornali – come il «Washington Post» e il «Los Angeles Times» – già prima delle elezioni presidenziali avevano cercato rifugio nella «neutralità» (né con Trump né con Harris) per evitare ritorsioni. Generando dimissioni interne e accuse di cedimento alle pressioni dall’alto. Onore a chi resiste, ma tra autocensure e ricatti la capacità dei media tradizionali di influenzare l’opinione pubblica americana sembra ai minimi storici.
Molti cittadini-elettori si informano tramite social, podcast e influencer, percependo i media mainstream come «parziali» o «inutili». Ad aprile la Casa Bianca ha ampliato l’accesso alle conferenze stampa a blogger, podcaster e creator digitali, tra cui strampalati esponenti del mondo MAGA poco avvezzi al concetto di deontologia giornalistica. Anche i giganti dell’informazione di qualità, però, a volte sbagliano. Che scivolata, quella della britannica BBC con il montaggio manipolatorio di un discorso di Trump del 6 gennaio 2021 (giorno dell’assalto a Capitol Hill) in un documentario, dove sembrava che il presidente avesse incitato direttamente alla violenza. La BBC ha chinato il capo e il direttore generale Tim Davie e la responsabile news Deborah Turness hanno perso il posto. Giusto: non puoi predicare contro la disinformazione della Casa Bianca e poi creare una fake news per combatterla.
Tutto questo consente al presidente Usa di continuare a trattare a pesci in faccia i giornalisti rei di fare il loro mestiere. Come Catherine Lucey di «Bloomberg», che nei giorni scorsi ha tentato di interrogarlo sui documenti di Epstein e si è sentita dire: «Quiet, piggy!» («Sta’ buona, maialina»). In febbraio, un reporter dell’AP è stato escluso da un vertice alla Casa Bianca per il rifiuto dell’agenzia di adottare la denominazione «Golfo d’America» al posto di «Golfo del Messico», come preteso da Trump.
Del resto, il Primo Emendamento garantisce la libertà di stampa, ma non obbliga il governo a concedere accesso illimitato. Tuttavia, negarlo a chi critica il presidente o non adotta una certa terminologia va considerato «viewpoint discrimination», una delle forme più gravi di violazione della libertà di espressione, perché colpisce il cuore del dibattito democratico. La nuova regola l’ha spiegata, papale papale, lo stesso Trump a un giornalista dell’AP: «Farmi domande è un privilegio, non un diritto». E quando l’AP ha presentato ricorso, un giudice federale lo ha respinto. Aiuto!