Colpo critico: come le stagioni giocano le loro mosse impreviste, anche alcuni giochi da tavolo celebrano i ritmi della natura
Le regole sono sempre le stesse, ma ogni volta vengo colto di sorpresa. La mia parte razionale e (più o meno) civilizzata è consapevole che, alla fine dell’inverno, tornerà la primavera. Ma nel profondo dei mesi oscuri sorge dentro di me un sentimento atavico, radicato nel profondo. E se le giornate restassero corte e buie? E se la crosta del terreno rimanesse dura e fredda? Nel corso dell’evoluzione gli esseri umani hanno di certo provato questo terrore. Il giro dell’anno è come il percorso di un gioco dell’oca, con i suoi rallentamenti, le sue svolte improvvise, ma con molta più raffinatezza. Devo confessare che non c’è un solo anno in cui sia riuscito ad anticipare l’avvenimento. Con astuzia ineffabile, la primavera arriva sempre nel giorno in cui non me l’aspetto: il primo indugio della luce serale, la prima gazzarra di uccelli nel fitto di un albero, il primo desiderio di togliersi la giacca camminando lungo una strada assolata.
La primavera vince sempre. Per quanto uno cerchi di anticiparla, lei riesce a escogitare una mossa imprevista. Infatti da sempre affascina i poeti, che amano venire colti alla sprovvista nella quotidianità. Un esempio illustre è Mario Luzi (1914-2005) – ndr. ricorre quest’anno il ventesimo dalla sua dipartita –, un autore che amo fin da ragazzo e sul quale ho scritto la mia tesi di laurea. Uno dei suoi motivi ricorrenti è proprio la mirabile, soffusa perfezione non della stagione piena, bensì di quel momento «prima di primavera, ma poco», quando «si diffonde la sua acquosa luminescenza / e quel chiaro e quell’alone sui monti, / quel trepidare dell’aria, quel vibrare delle immagini» (Per il battesimo dei nostri frammenti, Garzanti, 1985).
Per accompagnare questa sensazione suggerisco, oltre che di leggere Luzi, di prendere in mano un gioco leggero e divertente: Blätterrauschen (Kosmos, 2020), dell’autore italiano Paolo Mori. Il titolo significa «Il mormorio delle foglie» ed è indipendente dalla lingua (c’è un’edizione francese e una spagnola, ma si trovano su internet anche le regole in italiano). È un cosiddetto «roll and write», cioè un gioco in cui i partecipanti – da 1 a 6 a partire dagli otto anni – lanciano dei dadi e scrivono il risultato con una penna in un apposito foglietto. A seconda della combinazione, potranno segnare con una X diverse specie di piante e di animali che variano al mutare delle stagioni. L’ideale è intavolare questo Mormorio di foglie ogni due o tre mesi. Ci sono foglietti diversi per ogni periodo: pettirossi, agrifogli e abeti innevati d’inverno; fiori, farfalle, alberi verdeggianti in primavera; frutta, margherite, lucciole e (ahimè) anche zanzare d’estate; funghi, scoiattoli, foglie colorate d’autunno.
A chi ama indugiare sui piccoli, impercettibili cambiamenti del tempo consiglio anche di provare l’Hanafuda, un mazzo di carte tradizionale giapponese risalente al XVI secolo. Si trova in edizioni moderne con immagini molto evocative. Fra le varie versioni consiglio quella della Robin Red Games, pubblicata per la prima volta nel 2013 con le illustrazioni di Pascal Boucher. Il mazzo è composto da quarantotto carte divise in dodici semi secondo i mesi dell’anno. Anche qui, le immagini mostrano soprattutto piante o animali legate alle stagioni in Giappone (lievemente diverse dalle nostre): in febbraio per esempio ci sono il pruno e l’usignolo; in marzo il ciliegio e la tenda, perché si usava accamparsi insieme a parenti e amici per assistere alla fioritura dei ciliegi; in aprile il glicine e il cuculo. Lo stesso mazzo consente di fare giochi diversi: il più interessante è il Koï-Koï, che è la variante più diffusa in Giappone e che richiede ai partecipanti di comporre delle serie di carte legate fra di loro. Ma non c’è nemmeno bisogno di fare una partita: talvolta prendo il mio mazzo di Hanafuda e mi limito a guardare le carte, pensando al tempo che passa, al ritorno nel mio giardino degli stessi fiori, che sono misteriosamente sempre diversi.
Come scrive Giuseppe Ungaretti ne Il taccuino del vecchio (Mondadori 1960): «Ogni anno, mentre scopro che febbraio / È sensitivo e, per pudore, torbido, / Con minuto fiorire, gialla irrompe, / La mimosa. S’inquadra alla finestra / Di quella mia dimora d’una volta, / Di questa dove passo gli anni vecchi». La primavera insomma è una giocatrice accanita, che sfida i poeti sul loro stesso terreno. Per quanto Ungaretti o Luzi provino a spiarne i segni, a rassicurarsi dicendo che si ripetono uguali ogni anno, la primavera vince sempre. Per fortuna.
