In questi anni, abbiamo vissuto la più grande rivoluzione tecnologica e antropologica che l’umanità abbia mai conosciuto. Ogni volta che gli apparati della comunicazione cambiano, cambia la società.
Fino all’avvento di internet, la comunicazione (stampa, radio, tv) era vissuta come un graduale accrescimento di sapere, un qualcosa che univa nella condivisone. La comunicazione digitale non è più a misura d’uomo, sprigiona una potenza tale che ci sovrasta, siamo prigionieri degli algoritmi che informano, intercettano, manipolano a nostra insaputa. All’aumento incontrollato della comunicazione decresce la comprensione reciproca: per paradosso, la connessione globale divide.
Perché i giganti della tecnologia e le loro piattaforme hanno tradito le nostre aspettative? Perché la psiche umana è male attrezzata per governare la «superfioritura» di informazione che la tecnologia ha scatenato? Perché oltre un certo livello di efficienza, la comunicazione tende a produrre confusione più che a favorire l’intesa? A tutto ciò risponde in maniera convincente il libro di Nicholas Carr, Superbloom – Le tecnologie di connessione ci separano? (Raffaello Cortina editore).
La metafora dell’eccesso. Il superbloom del titolo si riferisce al superbloom di Walker Canyon, un’eccezionale fioritura di piante che si verifica quando le condizioni ambientali, come piogge abbondanti, favoriscono la loro crescita, attirando un grande numero di turisti, che spesso causano pericolosi ingorghi e l’intervento delle forze dell’ordine. Nel superbloom della rete nessuno riesce più a controllare gli accessi per preservare la nostra mente.
La tesi di Carr è che l’enorme quantità di informazioni («tutto, tutto in una volta») appiattisce ogni senso delle proporzioni. Ogni tema diventa solo «contenuto», trattato sullo stesso piano, indipendentemente dalla sua importanza o veridicità. Ogni tema diventa solo un generatore di traffico per aumentare i click. Questa nuova condizione spinge a non distinguere più le gerarchie degli eventi: «A mano a mano che i sistemi mediatici progredivano, dall’elettrico all’elettronica e poi dall’elettronica al digitale, lo spirito della rivoluzione industriale, con la sua insistenza sulla misura e sulla produttività, si è venuto propagando, debordando dalle fabbriche dagli uffici per comunicarsi alla vita intellettuale politica e quindi all’ambito della conversazione del discorso, del dibattito».
I media elettronici rimodellano la nozione di luogo e di tempo, creando una «iperrealtà» nella quale siamo immersi senza soluzioni di continuità. La realtà viene così riconfigurata per adattarsi a ciò che l’iperrealtà offre, dove abbondano deepfake e teorie del complotto. A differenza dei media più tradizionali dove «l’attrito dell’interfaccia» (un libro bisogna sceglierlo, così come un film) forniva spazio per la riflessione, la digitalizzazione rende l’informazione un «solvente universale», con una comodità che diventa una sorta di maledizione.
Ci siamo evoluti per cercare, per conoscere, ma con internet non c’è nessun freno naturale a questo desiderio e mai un senso di sazietà. La facilità d’uso impedisce quella che l’autore chiama l’«acculturazione disciplinata». Non solo queste tecnologie sono progettate per sfruttare le nostre debolezze, ma anche per cambiarci.
C’è infine un aspetto molto inquietante: l’anonimato su internet scatena il peggio di alcuni utenti; Nicholas Carr definisce il fenomeno «effetto Gyges». Tutto ha inizio da una storia narrata da Platone ne La Repubblica: un pastore di nome Gyges trova un anello dell’invisibilità che lo farà cedere alla corruzione trasformandolo in un tiranno. Per Platone, quando le azioni non sono soggette al giudizio altrui, nessuno è davvero immune dalla tentazione della corruzione. Carr suggerisce che tale equazione sembra più rilevante che mai nella nostra era. L’anonimato offerto da internet, simile all’anello di Gyges, rimuove la responsabilità e permette ad alcuni utenti di comportarsi male.
Contrariamente all’idea che una maggiore informazione porti a una maggiore democratizzazione, i social media possono fungere da megafono per la disinformazione (come la funzione retweet), facilitando la diffusione di falsità. Possono diventare mezzi politici che stabiliscono norme sociali, credenze e gerarchie di potere, cioè strumenti del potere autoritario.