«Cara Elsa, ti penso sempre, sotto il peso della tua tragica vitalità intellettuale e della poesia, come nei nostri ultimi incontri. Devo sempre ringraziarti di aver potuto vedere nei tuoi occhi, la compiutezza assoluta della poesia e del dolore». Chi scrive? È Goffredo Parise, lo scrittore dei Sillabari, che parla (5+) del dolore proprio e di quello della sua corrispondente, Elsa Morante. La quale è morta il 25 novembre 1985, dunque esattamente quarant’anni fa. E ogni volta che ricordiamo un grande scrittore, per un anniversario o semplicemente perché vogliamo farlo rivivere in qualche modo, possiamo non solo andare a leggerne le opere che ha pubblicato in vita, ma cercare le lettere che scrisse, in modo da sentirlo o sentirla ancora più presente e viva nei rapporti di amicizia che ebbe con i suoi contemporanei.
Ecco, dunque, Parise e Morante, che parlano di poesia e di dolore e di nulla come se fossero vivi tra noi. Oppure, sempre per restare a Elsa Morante, ecco una epistola-confessione del 1938 al suo Alberto (Moravia) in cui mette in chiaro i propri sentimenti e risentimenti (5+). Cominciando così: «Ho un tale desiderio di parlarti ogni momento, che dovrei sempre scriverti. Ma questo non è possibile come non sono possibili tante altre cose». Esordio che lascia intendere senza dire tutto (ci si può sbizzarrire a immaginare quali sono le «tante altre cose» che non sono possibili a distanza). E poi Elsa passa a trattare dei suoi rimorsi nei confronti dell’amato: «e il più grande di tutti è che non mi riesce di essere per te quello che vorrei», ammette le ombre del proprio carattere, riconosce di essere «piena di gelosie e di disperazione». Sentimenti che tanti della nostra generazione conoscono meglio per averli comunicati per lettera (se abbiamo più di cinquant’anni) alle persone amate.
Fatto sta che non leggeremo mai più (né forse scriveremo) lettere come quelle di Parise e di Elsa Morante: e non solo perché non è facile scrivere lettere così belle; e non solo perché non abbiamo tempo di soffermarci sui nostri sentimenti e risentimenti; e non solo perché è difficile anche trovare interlocutori pronti a leggere pensieri più lunghi di due righe. Ma soprattutto perché l’oggetto in sé va dritto verso la cancellazione, come è accaduto per i gettoni telefonici, le cabine, i cerini e, appunto, come sta accadendo per i francobolli. La Danimarca (2) è il primo paese ad avere decretato la fine della corrispondenza cartacea, gli altri paesi, inevitabilmente, seguiranno l’esempio (1). E va bene per le bollette e per le multe, va bene per la pubblicità e per i precetti esecutivi, ma le lettere d’amore, di amicizia e di dolore? Certo, c’è sempre la posta elettronica, ma vuoi mettere il frusciare del pennino sul foglio e il profumo della carta (6)? Personalmente, ho perduto tante di quelle lettere ricevute e inviate via mail, anni interi di corrispondenza evaporati nel cyberspazio, che non credo più nella memoria digitale.
E ringrazio il dio della carta di poter leggere oggi in un bel volume rilegato una lettera come quella che Enrico Palandri, giovane amico di Elsa Morante, scrisse alla scrittrice il 12 maggio 1983: «Cara Elsa, ho saputo del tuo tentato suicidio. Ho pensato a lungo di scriverti ma non sapevo che dirti. Pensavo: ma allora non crede più che l’anima dei suicidi se ne resta vagabonda sulla terra e non trova riposo? Oppure è tale il dolore e la fatica di vivere che preferisce quel vagabondaggio a questo? Poi pensavo che ti pensavo sempre, e che ti voglio bene. So che non ti do che monetine senza valore con le mie parole, che se ancora pensi di morire che io ti voglia bene ha tanta poca importanza per te quanta ne ha il fatto che in questo momento piove in Giappone» (5+ alle monetine e alla pioggia in Giappone).
Qualche anno prima che provasse a togliersi la vita (fu salvata dalla domestica), un altro amico di Elsa, il critico Cesare Garboli, le aveva scritto: «Io credo che la vita ti abbia dato molto; e nello stesso tempo ti abbia offeso in un modo misterioso a te stessa» (6- all’offesa misteriosa). Del resto, «tutte le vite sono, in un senso o nell’altro, delle vite mancate: l’arte è lì per soccorrere a queste mancanze». Bello, no (6)? Chi l’ha scritto? Umberto Saba. A chi? All’amica Elsa. In una lettera, con carta e penna. C’erano ancora i francobolli anche in Danimarca.