Dal Bataclan all’Italia, il dolore di una generazione

by azione azione
17 Novembre 2025

La Morgue di Parigi è una casetta di mattoni rossi a due piani, tra la colonna della Bastiglia, dove riposano i caduti nei moti del 1830 – quelli raffigurati da Delacroix ne La libertà che guida il popolo – e la Gare de Lyon, la stazione da dove partono i treni per il sud. Il giorno dopo le stragi al Bataclan del 13 novembre 2015 i genitori delle vittime andavano alla Morgue a riconoscere i corpi. Tre psicologi li accoglievano. A volte era possibile ritrovare i lineamenti dei giovani morti, visti nelle fotografie pubblicate in Rete, sul volto delle madri e dei padri condannati a sopravvivere loro. Ricordo un signore africano, papà di uno studente che per pagarsi gli studi faceva le consegne per la Federal Express. La moglie non voleva che parlasse con un cronista, il figlio minore tentò di trascinarlo via; lui però voleva fermare la memoria del figlio, lo confortava il pensiero che persone sconosciute leggessero di lui. Teneva a dire che il figlio consegnava pacchi per vivere ma amava molto i libri e la musica.

C’è anche una vittima italiana, come me (nessun cittadino svizzero risulta tra i deceduti). Dal giornale chiedono notizie di lei. Reagisco con po’ di fastidio. Occuparsene è giusto: la presenza di un italiano tra i morti farà sentire più vicina la tragedia di Parigi ai lettori. Certo, su 130 ragazzi uccisi quel venerdì sera, è un miracolo che ci sia una sola persona italiana; l’attacco è avvenuto in un arrondissement frequentato soprattutto da parigini o da stranieri che nella capitale vivevano. Pare che la vittima italiana sia una di loro. Pare che sia una donna. Quanto era sbagliato il mio fastidio. Quanto era importante quella vittima. Man mano che le veniva restituito un volto, una storia, un nome, Valeria Solesin diventava un simbolo. In lei si sono riconosciuti i suoi coetanei, e tanti altri italiani che hanno visto in Valeria una nipote, una figlia, una sorella maggiore. A poco a poco si è scoperto che Valeria era una bella persona. Una giovane donna sorridente. Una volontaria. Una ricercatrice. Una delle ragazze cui non si può dire «basta piangere», perché lei non ha piagnucolato: si è messa in gioco, è andata a cercare all’estero quel che l’Italia non le dava; l’ha trovato, l’ha preso e l’ha messo a disposizione degli altri. Nei giorni del dolore, le tv francesi hanno più volte ripreso le parole della madre, Luciana Milani: «Valeria mancherà molto a noi, e anche al suo Paese». Non amo le parole eroe, eroina. Non le uso nemmeno per le donne del Risorgimento e della Resistenza che sarebbero rimaste volentieri a casa loro; ma viene un momento in cui la storia ti obbliga a scegliere, e non tutte fanno la scelta più comoda e meno dolorosa. A Valeria questa scelta non è stata data. Non era scesa in guerra, era andata a un concerto. Senza portare neppure la borsa: un dettaglio che ha reso difficile identificarla. Non aveva alcuna colpa; non aveva alcun merito. Si è trovata nel punto sbagliato, nel momento sbagliato.

In questo frammento italiano di una tragedia mondiale – a Parigi, 10 anni fa, sono state uccise persone di 19 Paesi diversi – si è riconosciuta come in uno specchio infranto una generazione con cui l’Europa è stata poco generosa. La generazione del precariato, dei contratti che scadono ogni tre mesi, degli stipendi simbolici. Valeria non si è chiusa in un lamento puerile e sterile, non scriveva offese sui social network contro il mondo intero; lei il mondo l’ha affrontato, l’ha studiato, ha tentato di capirlo, e alla fine non ne è uscita sconfitta. Ricordo il suo funerale. In piazza San Marco. Umidità, vento gelido, acqua alta. Comitive di giapponesi sconcertati. Era dal 1868, quando fu onorato il patriota veneto Daniele Manin morto in esilio a Parigi undici anni prima, che piazza San Marco non ospitava una cerimonia funebre. I gondolieri con le magliette a strisce bianche e blu hanno portato qui Valeria dal municipio di Ca’ Farsetti. I fiorai hanno donato le corone. Il coro della Fenice ha aperto con l’inno di Mameli e la Marsigliese. A mezz’asta le bandiere d’Europa, d’Italia, di Francia, di Venezia. Il presidente della Repubblica, in silenzio. Tiratori scelti sui tetti delle Procuratie. La famiglia Solesin non ha detto una parola cattiva, neppure contro gli assassini. Ha invitato i responsabili delle tre religioni a pregare insieme: ognuno ha pregato secondo la propria fede; certo, pure gli islamici dicono «amen» (anzi «Āmīn»), i salmi sono gli stessi per i cattolici e per gli ebrei, «anche il nostro Dio è comune» ha detto l’imam di Venezia. Il presidente dei musulmani d’Italia ha riconosciuto una cosa molto importante: «Tocca a noi per primi combattere il terrorismo». «Ora dovete farlo davvero», ha aggiunto il rabbino.