Anniversari: scomparso 50 anni fa, Pasolini fu regista, poeta e polemista contro la decadenza della società borghese
Pier Paolo Pasolini ci manca da cinquant’anni. Da quella oscura notte d’inizio novembre del 1975, quando lo scrittore finì vittima di una vera e propria esecuzione che richiama il codice del branco, ossia l’accanimento omicida di veri carnefici, i quali, forse – è un’ipotesi, tra le molte – desideravano stroncare la vita di un uomo di 53 anni (era nato a Bologna nel 1922) che aveva cavalcato la tigre, nella sua esistenza spericolata, subendo una trentina di processi.
Non bisogna dimenticare che Pino Pelosi, il minorenne con il quale Pasolini si era appartato in auto all’Idroscalo di Ostia, fu condannato per aver sormontato con la macchina il corpo ormai rantolante del cineasta, dandosi alla fuga. Ciononostante, Pelosi non fu il vero e solo protagonista di quell’agguato: fu forse il branco, appartenente all’ambiente dei baraccati del litorale romano, a «reagire», in quel modo bestiale, alla condotta privata e spregiudicata del grande intellettuale, rendendolo martire.
Venne alla luce, ad esempio, che per un certo periodo, Pasolini ebbe la disponibilità di una delle catapecchie vicine al luogo del delitto, che aveva attrezzato a camera ove praticare il suo sesso selvaggio, sadomasochista. La sua omosessualità fu la pietra dello scandalo della campagna d’odio che molta parte dei media, e del benpensantismo, lanciarono per decenni contro questa spietata coscienza critica della società capitalistica borghese.
È noto, del resto, che Pasolini si presentava talvolta, sul set, con il volto tumefatto e solcato da graffi, in conseguenza di quelle scorribande notturne.
Romanziere, poeta, regista, sceneggiatore, giornalista e autore di reportage, Pasolini è tremendamente attuale, in quanto interprete visionario del pensiero antimoderno. Osservava con orrore il degrado crescente di un modello di società , fondato su una finta tolleranza, che mascherava in realtà il potere totalitario dei consumi. Riteneva che all’origine dei mali del panorama contemporaneo vi fosse il processo di urbanizzazione forzata e di sviluppo industriale, che stava rapidamente distruggendo ogni traccia della precedente società rurale, fondata su una religiosità che non condivideva, ma la quale tuttavia non cancellava quel che di buono e di sano vi era nella natura dell’umanità più semplice e genuina. Pasolini era un coacervo di contraddizioni.
Comunista, e borghese, si diceva addolorato di non poter essere interamente marxista. Ateo dichiarato, era posseduto dalla coscienza di non poter abbracciare il paganesimo materialista, e lo dimostrano i suoi film, a partire dal drammatico Vangelo secondo Matteo, fino al poetico Uccellacci e uccellini, dove diresse magistralmente un altrettanto insuperabile Totò.
Era dominato dal senso lirico della religione e della dimensione spirituale con nostalgia della perduta fede. La sua intera produzione, a cominciare dal romanzo che gli diede notorietà , Ragazzi di vita, divenne bersaglio di un’aggressività censoria che rasentava spesso il linciaggio. Ma, in Ragazzi di vita, Pasolini metteva in scena quell’ambiente di proletariato e sottoproletariato metropolitano, quei ragazzi di borgata con i quali egli, stabilitosi a Roma, stabilì un sodalizio umano e artistico quotidiano. Era solito affermare che ciò che allora si chiamava Terzo Mondo, cominciasse nelle periferie dei diseredati delle grandi città .
Il suo appartenere a una sensibilità antimoderna lo aveva condotto a realizzare un’intervista televisiva a Ezra Pound, che accostò con la delicatezza di un discepolo che, raggomitolato ai piedi della sorgente della saggezza, attinge alla sapienza del patriarca.
Sul fronte giornalistico, è famoso il suo articolo sulla scomparsa delle lucciole, così come, sempre in chiave polemistica, scrisse una serie di pezzi contro l’aborto, che in Italia stava ormai per diventare legge dello Stato.
Tutta la sua produzione è disseminata di una segnaletica di morte che sembra presagire la sua tragica fine. E questa visione apocalittica confluisce nell’intervista-testamento che rilascia a Furio Colombo, poche ore prima di essere assassinato, nella quale analizza la tracimazione della violenza in Italia: «Siamo tutti in pericolo», avverte, qualificandosi come un osservatore che scende negli inferi della contemporaneità per lanciare messaggi disperati. E ammonisce: «Ma state attenti. L’inferno sta salendo da voi».
«La tragedia è che non ci sono più esseri umani». Mette inoltre sotto accusa «una educazione comune, obbligatoria e sbagliata che ci spinge tutti dentro l’arena dell’avere tutto a tutti i costi. In questa arena siamo spinti come una strana e cupa armata in cui qualcuno ha i cannoni e qualcuno ha le spranghe. L’educazione ricevuta è stata: avere, possedere, distruggere». E ancora: «tutti vogliono le stesse cose e si comportano nello stesso modo. Se ho tra le mani un consiglio di amministrazione o una manovra di Borsa uso quella. Altrimenti una spranga. E quando uso una spranga faccio la mia violenza per ottenere ciò che voglio. Perché lo voglio? Perché mi hanno detto che è una virtù volerlo. Io esercito il mio diritto-virtù. Sono assassino e sono buono».
Infine, la profezia: «Qui c’è voglia di uccidere. E questa voglia ci lega come fratelli sinistri di un fallimento sinistro di un intero sistema sociale».
