Adelphi pubblica una nuova grande opera del Premio Nobel Isaac Bashevis Singer
Frenetico è il primo aggettivo che viene in mente una volta terminata la lettura del romanzo di Isaac Bashevis Singer pubblicato recentemente da Adelphi. Siamo nei primi anni del 900 e l’ambientazione è nuovamente quella Via Krochmalna nel cuore di una Varsavia che oggi non esiste più, crocevia di ogni umana deriva, in cui la stessa famiglia Singer (madre, padre rabbino chassidico, fratello Israel Joshua e sorella Esther – questi ultimi entrambi scrittori) aveva vissuto, e che aveva fatto da sfondo anche ai racconti contenuti in Alla corte di mio padre (Adelphi, 2024, v. «Azione» 2.12.2024).
Un pezzo di città fumoso e di cui non resta che qualche fotografia sfocata, zeppo di ebrei ferventi e di povertà, di papponi e prostitute, di ubriaconi e giocatori, di disillusi, di quella feccia umana, insomma, che trascorre il proprio tempo cercando di arrabattarsi come può, arrivando, per disperazione o spregiudicatezza, a fregarsene della legge e della morale, e che fa da titolo alla versione inglese del romanzo (che fu inizialmente pubblicato a puntate in yiddish nel 1967): Scum.
In mezzo al formicolio incessante della marmaglia tanto cara a Singer, finisce anche Max Barabander, polacco emigrato in Argentina, e ora di ritorno alla terra che gli diede i natali. Laggiù, dove l’ebraismo è vissuto piuttosto en passant, la vita per Max-Motl-Mordkhe e per sua moglie Rochelle (scovata in una casa di piacere) dalla morte dell’unico figlio Arturo si è fatta insostenibile, poiché nulla ha più senso di essere vissuto.
La meta di Max, a dire il vero, più che Varsavia, almeno negli intenti, è la località di Roszków, suo luogo d’origine, e dove giacciono i suoi cari, ma la feccia di cui sopra lo fagociterà in un turbine di situazioni complesse, antitetiche, sentimentali e crudelmente sensuali tale da fargli perdere la retta via – posto che l’avesse mai avuta davvero. Un costante scontro tra bene e male con riverberi di pia religiosità alternati a dissolutezze di natura varia, che risponde in qualche modo a quello più grande, che invece si gioca sullo sfondo, dove a contrapporsi sono il passato e il presente; in altre parole, ciò che è tradizione con le insidie della modernità.
Max è un uomo che odora di straniero, ma che, soprattutto, profuma di quei soldi che elargisce a destra e a manca, e così, molti nuovi amici non tarderanno ad arrivare. Anche perché non passa di certo inosservato in una strada che in fondo è un unico condominio («Era alto, con le spalle ampie, biondo, con gli occhi azzurri e il mento quadrato, il collo corto e il naso dritto. Già da ragazzo si era messo in luce per la sua forza. Quando picchiava un pugno sul tavolo gli faceva divaricare le gambe come quelle di un animale abbattuto. Un giorno aveva scommesso che sarebbe riuscito a mangiare tre dozzine di uova e a bere dodici bottiglie di birra, e aveva vinto.»): parla, blatera, mentendo organizza dalla mattina alla sera affari e conciliaboli amorosi, oscillando con sorprendente naturalezza tra genuina purezza d’animo e illegalità sprezzante, tra afflati entusiastici e momenti di sconforto… il tutto, come afferma egli stesso, nel tentativo di dare scacco a quella solitudine che gli attanaglia le viscere dalla morte del figlio.
Sebbene il nome li accomuni, Max Barabander è un uomo diverso da quello di Max e Flora: entrambi i romanzi (in aggiunta a Keyla la Rossa) rientrano nel filone dello yiddish gangster novel, ma a Barabander viene assegnato poco in quanto a umanità o profondità, lasciato com’è in balia della propria impulsività mista a una certa crudeltà.
Ma proprio grazie all’inquietudine del tormentato protagonista, raccontato «alla Singer», con brio e minuzia, ancora una volta alla lettrice e al lettore è dato di trovarsi nel ventre pulsante di una città che così non esiste più, nel cuore di una cultura sfaccettata, anche maleodorante e spesso criminale, dove sacro e profano paiono andare a braccetto pur odiandosi, ma proprio per questo tanto più umana.
E così, si attraversano pianerottoli che odorano di cholent o gefilte fish, insieme a Max ci si arrampica lungo scale strette e buie che portano a tuguri ancora più stretti e bui, si entra in un albergo di medio lusso – poiché ancora senza acqua calda – come doveva esserlo il Bristol, si partecipa a una seduta spiritica che si rivelerà una truffa, si sentono gli echi di una Buenos Aires che ancora rappresentava una possibilità di futuro e cambiamento.
Si incontra, insomma, una serie di miserabili dalla personalità immensa, semplicemente incantevoli.
Bibliografia
Isaac Bashevis Singer, Ritorno in Via Krochmalna, Milano, Adelphi, 2025
