Altro che dolcetto o scherzetto

by azione azione
27 Ottobre 2025

Oggi si sono un po’ attenuate, ma fino a qualche anno fa divampavano le polemiche tra i fautori della festa di Halloween e i suoi oppositori. Questi ultimi sostenevano che Halloween – celebrata il 31 ottobre, vigilia di Ognissanti (1 novembre) e seguita dalla Commemorazione dei defunti (2 novembre) – offuscasse il significato spirituale di queste ricorrenze, trasformandole in eventi consumistici e superficiali.

I fautori ribattevano che si trattava di un’usanza innocua, adottata dagli Stati Uniti (pur avendo origini celtiche), pensata per divertire i bambini, che gironzolavano di casa in casa vestiti da streghe, fantasmi e mostriciattoli. Suonando il campanello, intimavano ai padroni di casa un candido «dolcetto o scherzetto», ricevendo biscotti, cioccolatini o caramelle. In breve, non era il caso di farne una crociata ideologica.

Si può discutere su chi avesse ragione (e, in parte, ce l’avevano tutti), ma è certo che, in un mondo globalizzato, è inevitabile che le tradizioni si mescolino e si contaminino tra loro. Per dire: esistono, senza scandalo, pizzerie Bella Napoli a Tokyo, mentre nelle nostre lande prealpine abbondano i ristoranti di sushi e i kebabbari, che con le nostre tradizioni hanno poco da spartire.

Nel caso specifico, alle festività pagane si sono sovrapposte le celebrazioni cristiane, e a queste ultime le usanze sociali (e commerciali) americane, esportate dalla globalizzazione. Detto ciò, sono convinto che, dal punto di vista dell’immaginario macabro, la tradizione cristiana sia meravigliosamente più affascinante (e orripilante) dell’iconografia di Halloween. Zombie, spettri, mascheroni diabolici: li abbiamo inventati noi, molti secoli prima e molto meglio di Hollywood e della divulgazione industriale dei travestimenti horror contemporanei.

Il tardo Medioevo europeo ha elaborato il motivo, al contempo agghiacciante e ironico, della danza macabra, con festose adunate di scheletri che ballano in tondo. Ogni scheletro reca le insegne simboliche di ciò che era in vita: i re la corona, i papi la tiara, i guerrieri la spada, i monaci il saio, i contadini la zappa. Come a dire che, in una sorta di democrazia dell’aldilà, davanti alla morte siamo tutti uguali.

I brividi dei film horror, con giovani splendide ragazze precipitate nel terrore da figuri mostruosi, hanno un clamoroso precedente nell’erotismo macabro del maestro alsaziano Hans Baldung Grien. In un dipinto conservato al Museo di Basilea (1517), la Morte – le cui ossa sono ancora ricoperte da pelle essiccata – imprime un gelido bacio sulle labbra di una fanciulla dalle forme generose. Afferra un’altra ragazza per i capelli e le mostra, con gesto imperioso, la tomba aperta ai suoi piedi, ordinandole: «Hie must du yn» («È lì che devi scendere»), come racconta Louis Réau nel saggio Iconographie de l’art chrétien. L’arte nord-europea di quei tempi anticipa gli zombie con immagini di scheletri ricoperti di brandelli di carne che pendono come stracci dalle ossa, mentre dal centro dell’addome fuoriescono gli intestini.

Quanto al Ticino, qua e là si ammiravano teorie di teschi (veri) allineati negli antichi ossari. Quello di Cevio è stato abbellito, a metà del Settecento, da un pittore ignoto che ha disseminato sulle pareti un tripudio di scheletri che leggono, scrivono, maneggiano falci e martelli, sorreggono libri. Forse la stessa mano ha affrescato una dama e un cavaliere nel fiore degli anni, in abiti sfarzosi nella parte alta del corpo e completamente scarnificati dalla vita in giù. Un messaggio inequivocabile sulla nostra transitorietà, che è anche un discreto schiaffo alle ginnastiche e alle creme anti-age, e al contempo un invito a fare buon uso del tempo che corre e se ne va come le foglie nel vento d’autunno.

Altro che dolcetto o scherzetto.