«I femminicidi non si combattono con l’educazione sessuale» ha detto il ministro italiano dell’istruzione Giuseppe Valditara (3+). E si può anche essere d’accordo. La delinquenza non si combatte con l’educazione alla legalità. Il razzismo non si combatte con l’educazione all’eguaglianza. Il bullismo non si combatte con l’educazione al rispetto. L’omofobia non si combatte educando all’inclusione. La violenza non si combatte educando ai valori della pace. L’aggressività non si combatte con l’educazione alla mitezza. Eccetera. D’accordo, ha ragione Mattia Feltri (6-) nel suo «Buongiorno», la rubrica quotidiana della «Stampa». Chiediamo troppo alla scuola, sostiene. Educazione alla legalità, all’uguaglianza, alla sessualità…
E se la chiamassimo semplicemente educazione? Servirà pure a qualcosa l’educazione. Soprattutto, il manovratore (l’autore collettivo della famosa manovra finanziaria) ha qualche fiducia nell’educazione, nella scuola, nell’istruzione? Sembrerebbe che più del bullismo, dei femminicidi, della delinquenza, dell’omofobia faccia paura l’educazione, in qualunque modo la sia declini. Che sia educazione di questo o di quello, non va mai bene. Educazione sessuale? No. Educazione affettiva? No. Allora chiamiamola educazione sentimentale. No, no e poi no. Si è detto che istituire l’educazione sessuale nelle scuole rischierebbe di aprire alle teorie gender. Dunque, nel dubbio meglio di no.
Ma l’educazione? Si potrebbe capovolgere tutto e chiedere al ministro di sottoscrivere questa affermazione: la delinquenza, i femminicidi, il razzismo, il bullismo, l’omofobia, la violenza eccetera eccetera non si combattono senza educazione. Va bene così? E allora perché non si vuole investire nell’educazione? Qualcuno ha sentito parlare di istruzione e di scuola nel dibattito sulla manovra economica? Qualcuno, nei grandi sommovimenti mondiali che caratterizzano questi nostri tempi bellici e «bullici», ha sentito la parola «educazione»? Diciamo la verità, nessuno.
L’educazione è chiaramente un concetto impopolare. Parlarne non fa prendere voti. Immaginate un politico che faccia campagna elettorale con lo slogan: PIÙ EDUCAZIONE! PIÙ ISTRUZIONE!! PIÙ SCUOLA!!! Meriterebbe un voto d’aria di gran lunga superiore al 6, ma sono pronto a scommettere che sarebbe destinato al fallimento. E sono anche pronto a scommettere che nessuno mai oserà tanto. Né in Italia né altrove. Non è più il tempo di Piero Calamandrei, il grande giurista e politico antifascista che diceva: «Se si vuole che la democrazia prima si faccia e poi si mantenga e si perfezioni, si può dire che la scuola a lungo andare è più importante del Parlamento e della Magistratura e della Corte costituzionale» (il voto d’aria lo lascio al lettore).
Non è più neanche il tempo in cui Barack Obama poteva dire una frase su cui l’attuale presidente sarebbe pronto a vomitare: «L’ignoranza non è una virtù» (idem). Pasolini, che nelle celebrazioni del 2022 una presidente del Senato (2) ha chiamato Gian Paolo, è morto cinquant’anni fa e il disprezzo per la cultura l’ha percepito con lucidità con grande anticipo. Sosteneva che un tempo i sottoproletari rispettavano la cultura anche se non si vergognavano della propria ignoranza: anzi, erano fieri del loro modello di vita. Erano analfabeti che possedevano il «mistero della realtà». Oggi a disprezzare la cultura (gli intellettuali, i «professoroni», i «giornaloni», le università…) sono i potenti del mondo.
E Pasolini già vedeva i piccoli borghesi e i proletari imborghesiti odiare tutto ciò che sapeva di cultura per omologarsi ai modelli televisivi e al conformismo linguistico. Chiamava «fascismo» questa omologazione forsennata indotta dalla frenesia del consumo, un potere senza camicia nera ma capace di plasmare le vite e le coscienze. Oggi al consumo si è aggiunta la religione della tecnologia (e di conseguenza del denaro). Intorno agli stessi anni di Pasolini, Italo Calvino spiegava: «Un Paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per soldi, perché le risorse mancano, o i costi sono eccessivi. Un Paese che demolisce l’istruzione è già governato da quelli che dalla diffusione del sapere hanno solo da perdere». Voto d’aria? Fate voi.