Le aree del cervello che ascoltano e decodificano le melodie sono attive, il problema è nella comunicazione: non «parlano» fra loro
C’è chi ascolta una sinfonia di Beethoven e si commuove fino alle lacrime, chi trova in una vecchia canzone pop la chiave per ricordare un amore passato, chi non resiste all’impulso di ballare appena sente i primi accordi dell’hit preferita. E poi ci sono persone, poche ma reali, per le quali la musica è soltanto una sequenza di suoni, mai un’esperienza gratificante. Non si tratta di insensibilità né di incapacità di provare piacere in generale, ma di una condizione «particolare» e rappresenta una perfetta dimostrazione di quanto complessa sia la relazione tra attività cerebrale, emozioni e identità.
Già anni fa un team di neuroscienziati, guidato da Josep Marco-Pallarés e Ernest Mas-Herrero, all’Università di Barcellona aveva pubblicato la prima descrizione dettagliata di persone in grado di percepire, analizzare e ricordare la musica, ma completamente insensibili al suo fascino emotivo. Questi soggetti, spesso inconsapevoli della loro «diversità», hanno un udito perfettamente normale e provano soddisfazione o gioia davanti ad altri stimoli (dal buon cibo a una vincita, dal sesso alle interazioni sociali). Solo la musica, inspiegabilmente, non li tocca. Studi preliminari avevano individuato persone per cui la musica era «inutile», ma mancavano strumenti per distinguere un semplice disinteresse (legato, ad esempio, a motivi culturali o generazionali) da un fenomeno neurobiologico profondo. Ora i neuroscienziati fanno un passo avanti nello studio pubblicato sulla rivista Trends in Cognitive Sciences: alla base c’è una disconnessione tra due circuiti fondamentali: uditivo, che elabora i suoni, e della ricompensa, che genera sensazioni di piacere.
Le scansioni di risonanza magnetica funzionale (fMRI) mostrano infatti che, negli individui con anedonia musicale, le aree deputate alla percezione delle melodie funzionano regolarmente. Quando però la musica raggiunge il «centro ricompensa», l’attività neuronale risulta attenuata, come se mancasse il collegamento in grado di trasformare l’ascolto in esperienza emozionale. Per identificare con precisione i casi di anedonia musicale, i ricercatori hanno ora messo a punto il Barcelona Music Reward Questionnaire (BMRQ), un test che esplora cinque dimensioni nelle quali la musica può risultare gratificante: evocare emozioni, modulare l’umore, rafforzare i legami sociali, stimolare il movimento e offrire nuove esperienze da scoprire e collezionare.
Chi soffre di questa condizione tende a ottenere punteggi bassi in tutte queste aree, indipendentemente dal genere musicale o dal contesto di ascolto. Questa dissociazione porta i ricercatori a una conclusione chiara: il problema non riguarda né i centri dell’udito né il sistema del piacere in generale ma la comunicazione tra i due, ovvero manca la connessione tra ciò che udiamo e ciò che ci emoziona. I centri a valle lavorano, ma non ricevono il segnale giusto.
Ma perché alcune persone nascono o diventano «insensibili» alla musica? Le cause non sono ancora chiare. I dati disponibili suggeriscono un intreccio complesso tra fattori genetici e ambientali. Studi su gemelli indicano che l’attitudine ad apprezzare la musica è per il 54% influenzata dal patrimonio genetico. Ciò significa che i geni contribuiscono in modo rilevante a plasmare il grado di sensibilità musicale di ciascuno. Ma le influenze ambientali, familiari e culturali restano importanti. Un ambiente in cui la musica è centrale può forse «allenare» la connessione tra circuito uditivo e ricompensa, ma non sempre è sufficiente. Oggi i ricercatori stanno lavorando con genetisti per scoprire i geni implicati e comprendere, ad esempio, se esistano mutazioni che aumentano il rischio di anedonia musicale. Allo stesso tempo, stanno cercando di capire se questa particolarità sia un tratto costante dell’identità o un fenomeno che si modifica con il tempo, l’età, le esperienze vissute.
Questa ricerca non riguarda soltanto la curiosità di spiegare un’anomalia rara. I meccanismi che la sottendono possono gettare luce sui disturbi più gravi legati al sistema della ricompensa: la depressione, la dipendenza da sostanze, persino i disturbi alimentari. In questi casi, il «piacere» viene meno in senso generalizzato oppure risulta deviato verso uno stimolo specifico. Comprendere le «anedonie specifiche» potrebbe aiutare a sviluppare terapie mirate, magari in grado di riattivare collegamenti cerebrali saltati o aiutare il cervello a trovare nuove fonti di gratificazione. «Un meccanismo simile potrebbe essere alla base delle differenze individuali nelle risposte ad altri stimoli gratificanti, – afferma Josep Marco-Pallarés, l’autore del nuovo studio insieme a Ernest Mas-Herrero – indagare su questi circuiti potrebbe aprire la strada a nuove ricerche sulle differenze individuali e sui disturbi correlati alla ricompensa, come l’anedonia, la dipendenza o i disturbi alimentari».
L’ipotesi è che esistano anche altre forme di «anedonia specifica», legate non alla musica ma ad altri stimoli, dal cibo al contatto sociale. La sfida ora è capire se l’anedonia musicale rappresenti una caratteristica stabile della persona o se possa modificarsi nel tempo. I ricercatori stanno collaborando con genetisti per individuare i geni coinvolti e verificare se questa particolare «sordità emotiva» alla musica sia reversibile. Potrebbe darsi, spiegano, che modulando la connettività tra circuiti cerebrali sia possibile cambiare la percezione del piacere musicale, aprendo nuove prospettive anche per la neuro-riabilitazione in altri campi.
In definitiva, lo studio sull’anedonia musicale ci ricorda che dietro l’apparente universalità delle emozioni si nasconde una variabilità individuale sorprendente. Non tutti provano brividi ascoltando una sinfonia o una canzone pop, e questo non significa avere meno sensibilità o capacità cognitive. Significa piuttosto che il cervello umano, pur essendo un organo universale, interpreta il mondo esterno seguendo percorsi unici. Comprendere queste differenze non solo arricchisce la conoscenza neuroscientifica, ma invita a riflettere sul concetto stesso di piacere: un territorio comune, sì, ma declinato in infinite sfumature individuali.