Un’orazione civile per una Svizzera aperta

by azione azione
6 Ottobre 2025

Il rabbioso rialzo dei dazi deciso dagli Stati Uniti ha terremotato il circuito commerciale internazionale, abbattendosi anche sulla piccola Svizzera, agli occhi di Trump non così candida e incolpevole come ha sempre preteso di essere. Il colpo di maglio trumpiano ha scatenato un’infinità di reazioni, perlopiù di condanna nei confronti dell’editto emanato dal gabelliere in capo. Ma ha anche risvegliato un’opinione pubblica che si riteneva al riparo da ogni ritorsione, rannicchiata in un biotopo protetto nel cuore delle Alpi, laborioso e diligente, rispettoso degli accordi presi e perciò eticamente irreprensibile. Si era insomma certi che alla fine avrebbero prevalso le normative fin qui concordate e i princìpi della razionalità, e non la prepotenza e l’arbitrio. Ora sappiamo che non è andata così, anzi che andrà sempre peggio, e non solo per l’economia e il commercio. Eppure da tutto questo si può ricavare una lezione, ovvero trasformare lo sdegno in un’opportunità per riprendere una riflessione sullo «stato del Paese», sui sentimenti che lo percorrono, sulla volontà o meno di affrontare riforme sempre rimandate a vantaggio di un anchilosato conservatorismo.

Tre sono stati, nella storia recente, i momenti che hanno movimentato il dibattito interno: il 1991, l’anno del settecentenario della Confederazione; il 1996 con l’istituzione della Commissione Bergier per far luce sull’atteggiamento della Svizzera nei confronti del regime nazista; il 2002, con la sesta esposizione nazionale allestita dopo vari incagli intorno ai laghi neocastellani. Sono state occasioni in cui tutto il Paese ha potuto ritrovarsi non solo per celebrare i fasti di un tempo, ma anche per cercare di definire l’area di un progetto comune. Agli occhi di alcuni intellettuali era addirittura giunta l’ora di «re-inventare la Svizzera», spogliandola della panoplia che le impediva di immaginare il futuro. Un’ambizione probabilmente velleitaria, esagerata (ma lo scriviamo con il senno di poi). Fatto sta che ogni volta si è discusso e litigato; c’è stato chi ha partecipato con entusiasmo e chi si è chiamato fuori, invitando a boicottare le iniziative ufficiali; c’è chi esigeva l’abolizione dell’esercito e chi la soppressione degli uffici federali preposti alla sorveglianza della cittadinanza (scandalo delle schedature); chi invocava riforme profonde delle istituzioni (alcune delle quali risalenti al 1848) e chi chiedeva una revisione incisiva dell’impianto federalistico; chi rimaneva aggrappato al «Sonderfall» e chi perorava un’apertura verso la Comunità europea (poi Unione). Ora siamo nuovamente a uno di questi fondamentali punti di svolta. Una nuova, imponente esposizione nazionale non è alle viste. Probabilmente nei prossimi anni si opterà per una serie di manifestazioni decentrate in tutte e quattro le regioni linguistiche, con le città nel ruolo di forza trainante. Ma intanto bisognerà riprendere in qualche modo il filo del discorso tenendo presente i mutamenti intervenuti nel frattempo, nel nuovo mondo che la rivoluzione tecnologica sta apparecchiando perlopiù a nostra insaputa, assieme alle politiche perseguite dall’Ue e alla mutazione genetica che sta attraversando gli Stati Uniti.

Un primo assaggio di una riflessione appena iniziata lo si può trovare nel libro recentemente pubblicato dalla casa editrice Hier und Jetzt di Baden: si intitola Plädoyer für eine offene Schweiz e raccoglie testi di René Rhinow, un politico liberale di lungo corso, professore universitario e già presidente della Croce Rossa. Apre il volume un dialogo tra l’autore e due interlocutori qualificati: l’imprenditrice Nadine Jürgensen e l’ex direttore della SSR Roger de Weck. «Plädoyer» è termine del linguaggio giuridico che si può rendere in italiano con arringa o appello, in questo caso con perorazione o, meglio ancora, con orazione civile. Ed è proprio questo che si propone l’autore sostenendo la causa di una «Svizzera aperta», un paese che di fronte alle sfide che l’attendono non eriga muri (materiali e mentali) alla frontiera, ma abbia il coraggio di spezzare le catene che lo tengono prigioniero, impedendogli ogni movimento riformatore, si tratti delle istituzioni, dell’amministrazione, dei rapporti con l’Unione europea e con la Nato, dell’immigrazione, della difesa nazionale, della neutralità. Le forze nazional-populiste amano celebrare il passato come una specie di eden perduto, ma non può essere questa la via da imboccare per farsi ascoltare dalla comunità internazionale. Come diceva Peter von Matt, il critico letterario e saggista scomparso lo scorso 21 aprile: «la nostra patria è la Svizzera; la patria della Svizzera è l’Europa».