Scendo raramente in città. L’ultimo richiamo è stato quello dell’Angelo barbiere che ha la pazienza di «farmi sembrare» il detective Gibbs, perlomeno nel taglio dei capelli. Andando da lui ho scoperto che con l’estate se n’è andata anche la sede dell’ex-Credito Svizzero di via Vegezzi. Guardo la facciata spoglia e le vetrine incartate e cerco di superare il momento di tristezza che mi piomba addosso riandando al passato di quei muri: al mitico «Bankverein» che custodiva (leggenda metropolitana) la tonnellata d’oro dei Marzotto e al mai emulato Bar Lugano dove banchieri e bancari iniziavano la «movida» che poi sfociava in Piazza della Riforma. Nei pensieri arriva però anche la spirale che si innesta non appena locali di importanti edifici dei centri cittadini rimangono vuoti per più mesi: anche negozi o locali pubblici contigui o vis-à-vis a quelli chiusi vengono penalizzati. Nelle grandi città poi, può scattare un effetto domino che progressivamente interessa interi quartieri generando nuovi flussi pedonali e spostamenti di affittuari verso altri poli, condizionando pesantemente scelte imprenditoriali e investimenti immobiliari.
Abbiamo fatto talmente il callo alle riapparizioni di questi ingombranti e desolanti vuoti urbani, che non ci accorgiamo nemmeno più di essere portati a minimizzare di riflesso altre singole e lodevoli iniziative, a trascurare il coraggio di chi – come la banca privata ginevrina Gonet, forte della sua secolare tradizione e inserita in un importante gruppo finanziario – sceglie di insediarsi a Lugano nonostante questo clima. Il pessimismo avvertito in via Vigezzi mi ripiomba addosso nei giorni successivi seguendo una quasi surreale serie di «sogni» innescati dai media su progetti e proposte urbane della città sul Ceresio. Sia detto subito: poco o niente di ufficiale, progetti più privati e personali che pubblici, comunque supportati da evidenti posizioni politiche oltre che da mirabolanti «rendering». Al «sogno» di un teatro con la T maiuscola (solito parallelepipedo aggiunto al complesso del Lac) fa seguito la proposta di un diritto di superficie per l’ex padiglione Conza, che consenta a iniziative private di collaborare nel realizzare il «sogno» del futuro polo turistico, mandando in pensione il Palacongressi.
Diritti di superficie? Subito la cucina mediatica sforna il «sogno» di un mega-parco talmente verde e grande da sdoganare anche un nuovo grattacielo. Altra precisazione: quello di affidare i «sogni» del proprio futuro all’edilizia e a progetti immobiliari non è solo un vezzo di Lugano. Anche la capitale ci prova ballando tra la riqualifica e valorizzazione delle ex-officine FFS e il nuovo ospedale delle Semine, con sosta all’immancabile polo sportivo. Anche altri centri abbinano riconversioni di immobili e zone dismesse con progetti ambiziosi che spesso ravvivano rivalità, soprattutto laddove i sogni solleticano concorrenze. La lista dei grandi edifici vuoti (privati e pubblici), che ormai servono praticamente solo a suggerire, chiedere, lanciare periodici nuovi «sogni», esiste da decenni ed è lunghissima: va dall’Alto Ticino sino al Mendrisiotto, comprende i sempiterni ex-sanatori in montagna, tocca ex-officine, arriva a ex-banche e centri commerciali moderni ma già dismessi o mai avviati, tutti in attesa di riconversioni, decisioni politiche o progetti immobiliari, tutti con la speranza di ritrovare investimenti attesi da troppo tempo, quindi sempre più riconducibili a benessere che si sfarina, a casse pubbliche che languono, a coraggio politico che manca. Dieci anni fa in questa stessa rubrica avevo parlato di una lunga intervista, apparsa sul «Tages Anzeiger», di Ludwig Hasler, filosofo e pubblicista svizzero-tedesco. Nell’intervista egli evocava un apologo incentrato sulle risposte di tre scalpellini, impegnati cento anni fa a rompere sassi: alla domanda su cosa stessero facendo, «Io spacco pietre» dice il primo; «Io mi guadagno il pane» risponde il secondo; «Io contribuisco a edificare una magnifica nuova cattedrale nella nostra città» è la risposta del terzo. Temo che quel terzetto stia diventando una rappresentazione dei ritardi, delle debolezze e dei «sogni» della nostra classe politica. Sembra dirci che, nonostante siano passati cento anni, il Ticino dovrà continuare a picchiare sui sassi per spaccarli e per guadagnare il pane, prima di diventare scalpellino di nuove cattedrali, cioè del proprio futuro.
 
			         
			         
			        