Quest’estate la nostra famiglia si è allargata. Da Foggia sono arrivate due gattine, salvate dall’associazione AnimaLeale che con grande amore e professionalità si occupa di dare una nuova vita ad animali in difficoltà. Prima abbiamo accolto Milly, la mamma, una bella micia spaventata e ancora sofferente e, dopo qualche tempo, è arrivata la sua piccola, Moka, dolce e fragile creatura dagli occhi pieni di malinconia. Non so se si siano riconosciute, ma dopo qualche giorno di mosse sospettose, le due hanno iniziato una convivenza affettuosa e soprattutto gioiosa, di una gioia contagiosa che ha riempito la casa.
Osservare il loro muoversi felpato, in esplorazione attenta di ogni oggetto e di ogni angolo della casa, alla scoperta dei luoghi da subito preferiti, è stato come reinventare insieme a loro i nostri sguardi sugli spazi fin troppo consueti, con una luce nuova, inattesa e divertita. Il divano rosa, ad esempio, meta silenziosa e trascurata di sprofondamenti serali assonnati, si è trasformato in un giardino vivace, luogo prediletto per danze fantasiose. Nuove atmosfere, nuove percezioni del nostro abitare.
Così mi è venuto da pensare che la fisica quantistica potrebbe avere qualche cosa da dirci anche a proposito dei nostri piccoli gesti quotidiani, ricordandoci che la presenza dell’osservatore modifica sempre l’oggetto osservato. In effetti, per meglio comprendere questa verità spesso rimossa in nome di una presunta e rassicurante stabilità del nostro mondo, sarebbe bastato pensare alla rivoluzione scientifica del Seicento che ci ricorda come il mondo in realtà possa diventare un altro proprio a partire dal nostro sguardo.
Vederle poi interagire, cercando di decifrare i loro svariati rituali di lotta e di abbracci, sempre attente alla presenza dell’altra, anche nel condividere cibo e topolini giocattolo, è stata fin dall’inizio un’esperienza che mi ha fatto molto riflettere. Fanno riflettere queste forme così semplici e armoniose di vivere e convivere, così diverse dalle nostre forme di convivenza, a volte problematiche quando non addirittura infelici. La delicatezza e la leggerezza del loro muoversi, attente a tutto ciò che le circonda, sta riempiendo la casa di nuove atmosfere e i miei risvegli di nuovi pensieri.
Mi viene spesso da pensare con un certo disagio a tante rappresentazioni negative degli animali, profondamente radicate nella nostra cultura e ancora presenti nel nostro linguaggio. «Quella persona è un animale», oppure «questi sono comportamenti animaleschi», e ancora altre esclamazioni sprezzanti della vita animale, volte a stigmatizzare comportamenti umani volgari, aggressivi, e comunque riprovevoli, perché «dai, siamo uomini, non animali!».
Il filosofo Thomas Hobbes sosteneva che l’uomo è un lupo per l’altro uomo e solo uno stato forte può tenere sotto controllo la nostra natura bellicosa. Jean Jacques Rousseau era invece convinto che l’uomo per natura è buono ed è la vita sociale, la cultura, che lo corrompe.
Il rapporto tra natura e cultura è un bel tema, forse irrisolvibile, e forse proprio perché la natura stessa è sempre una natura pensata dentro una cultura. Così, sono andata a cercare nella mia biblioteca un saggio di Mark Bekoff e Jessica Pierce, un etologo e una filosofa, dedicato alla vita morale degli animali. Giustizia selvaggia è un libro di qualche anno fa che avevo amato molto e che è divenuto un classico per il suo approccio rivoluzionario nei confronti di tanti pregiudizi culturali.
Con un vastissimo panorama di esempi di interazioni sociali tra animali di diverse specie (da quella tra una gatta che si prende cura di un cane sordo e cieco, al pianto inarrestabile di un gorilla per la morte del suo piccolo, alle cure di una femmina di elefante verso un’altra ferita da un maschio violento) gli autori mostrano la presenza di comportamenti morali basati sul senso della giustizia, dell’empatia, del perdono, della fiducia e dell’altruismo reciproco. Le loro ricerche svelano «ricchi mondi interiori, un repertorio emozionale pieno di sfumature e un elevato grado di intelligenza e di adattabilità». Nella sua lucida prefazione il famoso etologo Danilo Mainardi sostiene che la scoperta di atteggiamenti definiti dagli autori come morali ci permette di percepire un sentimento di parentela e di condivisione che avevamo perduto nei confronti delle altre specie.
Un invito a superare tanti pregiudizi, frutto avvelenato di quell’antropocentrismo con cui guardiamo a tutta la natura che ci circonda, chiamandocene fuori e distruggendo così il sentimento di una comune appartenenza.