McCarthy e l’implosione dei repubblicani

by Claudia
9 Ottobre 2023

Kevin McCarthy, speaker repubblicano del Congresso americano, ha perso il posto a causa di una rivolta interna al suo stesso partito. Il deputato della Florida Matt Gaetz ha presentato una mozione di sfiducia nei confronti del suo capo e, grazie al voto di tutti i democratici e di 8 repubblicani suoi alleati, è riuscito a spodestarlo. La faida tra il trumpiano Gaetz e il semi trumpiano McCarthy è iniziata subito, nel gennaio di quest’anno quando si doveva scegliere lo speaker e il Partito repubblicano voleva McCarthy ma voleva anche fargli sudare l’elezione. Ci sono volute 15 votazioni e molti compromessi per completare la nomina e Gaetz ha deciso che la pressione non si sarebbe mai allentata: definiva McCarthy uno «squatter», uno che occupava abusivamente il posto da speaker, e non ha mai smesso di trattarlo così, come un ostaggio. Poiché McCarthy ha cercato di liberarsi e ha coltivato l’illusione di poter maneggiare l’ala minoritaria ma invadente dei trumpiani, ma ha finito per assecondarla perdendo credibilità presso tutti. Tant’è vero che ogni suo tentativo di dialogare con i democratici – questo fa il presidente di un Parlamento, cerca terreno comune, compromessi, accordi – si è trasformato in un conflitto coi trumpiani: sei troppo tenero – gli dicevano – sei debole, sei un traditore. Nella visione incendiaria che anima il trumpismo, ogni dialogo è un’impostura da punire, fare politica è un cedimento, le trattative sono collaborazionismo. Da parte sua McCarthy rappresenta il problema di tutto il Partito repubblicano che non vuole fare i conti con Donald Trump, che non ha mai voluto farli nonostante l’assalto del 6 gennaio e i tanti processi in corso. Trump è popolare, vince le elezioni e quindi garantisce il potere al Partito repubblicano e soprattutto Trump è vendicativo: molti hanno paura a mettersi contro di lui. Così tutti i cosiddetti «ponti» tra trumpiani ed establishment tradizionale, come lo stesso McCarthy, finiscono sotto ricatto dei trumpiani.

L’ultimo confronto che ha portato all’estromissione di McCarthy si è consumato sui soldi. Da settimane al Congresso si negozia il budget che è da sempre un momento di conflitto perché, come è normale, le priorità dei repubblicani e quelle dei democratici sono differenti. Se non ci si accorda, le spese per la pubblica amministrazione vengono sospese: è lo shutdown, il fallimento della politica. Sembrava inevitabile, quando McCarthy ha presentato all’ultimo minuto un budget negoziato con i democratici – che dura 45 giorni, non eterno, non risolutivo – in cui sono saltate alcune spese, la più evidente sono i 6 miliardi di aiuti alla Difesa ucraina. Si è creato il cortocircuito: pur avendo i trumpiani ottenuto lo stralcio del sostegno a Kiev – al quale sono attaccati, è un alibi perfetto per non parlare dello stallo sistemico della politica Usa – hanno attaccato McCarthy perché ha negoziato con i democratici mentre avrebbe dovuto tirare dritto fino allo shutdown negoziando poi la resa su altri capitoli di spesa. McCarthy invece ha scelto la via della stabilità, come gli ha indicato anche la Casa Bianca che ha pensato: se andiamo allo shutdown «per colpa dell’Ucraina» è un disastro, meglio votare gli aiuti a Kiev separatamente (finora tutti i pacchetti sono passati con un voto bipartisan).

McCarthy ha deciso di fare la cosa giusta ma il coraggio c’entra poco nelle sue vicende, il calcolo invece c’entra tantissimo e questa volta non gli è riuscito perché si è ritrovato nella posizione di dover prendere le distanze dai democratici per non sembrare il «traditore» e allo stesso tempo di aver bisogno di loro per salvarsi. I democratici hanno deciso di non aiutare McCarthy: consumatevi tra di voi, cari repubblicani. Ora c’è uno speaker pro tempore; McCarthy ha detto che non si ricandida perché considera il Congresso e in particolare il suo partito ingovernabili, e i repubblicani devono trovare un nome su cui accordarsi. Uno dei più chiacchierati è Jim Jordan, deputato dell’Ohio che è considerato un mastino del trumpismo, lavora nelle commissioni Giustizia e si occupa delle accuse ad Hunter Biden e dell’impeachment di Joe Biden, del quale non riconosce nemmeno la legittimità visto che nel 2021, il giorno dell’assalto al Congresso, Jordan non ha votato per la certificazione dei risultati elettorali delle presidenziali del 2022. Poiché però è difficile ammettere che il Partito repubblicano è imploso, il dibattito resta impantanato sugli aiuti a Kiev in bilico. In bilico per ora ci sono gli stipendi della pubblica amministrazione americana e il funzionamento del Congresso, senza il quale stanno male «the americans first».