Che cos’è il lusso? È parlare del risultato delle elezioni in Svizzera mentre fuori il Medio Oriente esplode e il terrorismo internazionale rialza la testa (per non dir dell’Ucraina). Perciò lo facciamo timidamente, consapevoli che le magagne del mondo sono altre. Così, da ieri sera teniamo con discrezione la conta dei promossi e dei bocciati al Consiglio nazionale e a quello degli Stati (per questa Camera ci sarà un eventuale ballottaggio il 19 novembre). Mentre scrivevamo queste righe, eravamo nel limbo tra la zelante compilazione delle schede di voto e l’annuncio dei risultati, senza sapere se il Paese si sarebbe spostato a destra (come previsto), chi se la sarebbe cavata meglio tra i partiti, se il numero delle donne in Parlamento sarebbe cresciuto o diminuito. Gli esperti ora ci spiegheranno se alle urne hanno prevalso le paure o le speranze, se abbiamo votato per lealtà partitica, conoscenza dei candidati, potenza propagandistica o intima convinzione sui temi «caldi» della cosa pubblica. Se, a fare incetta di voti, sono state più le promesse di ridurre i premi delle casse malati, l’annunciato impegno contro i cambiamenti climatici o le crociate contro l’immigrazione di massa, i tre temi che alla vigilia del voto sembravano preoccupare maggiormente la popolazione.
Ogni elezione è un’occasione per guardarsi allo specchio come popolo, scoprire quali idee, giudizi e pregiudizi hanno maggior presa sulle nostre coscienze. O se – con rispetto parlando – lo svizzero medio «se ne freghi», essendo piuttosto indifferente all’agone politico: ce lo dirà il dato sull’astensionismo. Comunque sia andata, votanti e non votanti, trionfatori e asfaltati dell’ultima tornata, credetemi: abbiamo vinto tutti.
Non fraintendetemi. Ognuno di noi, osservando l’esatta suddivisione partitica degli emisferi dentro Palazzo federale, a seconda della propria Weltanschauung, stapperà champagne o si roderà il fegato nel vedere quanto è rappresentato o poco rappresentato nelle due Camere del Parlamento.
Non mi riferisco neppure al giochetto tipico del dopo voto, quando alcuni portavoce dei partiti sconfitti si esibiscono in funambolici esercizi d’alta retorica per mostrare che non è andata così male. Del resto, fra i politici, i mea culpa restano merce pericolosa e rara perché, se avessero una logica, dovrebbero precedere le dimissioni.
No, abbiamo vinto tutti perché restiamo uno dei popoli più fortunati al mondo.
1. Abbiamo potuto votare. Ci sono Paesi in cui l’esercizio della democrazia è una bugia, i media son sotto i tacchi del regime, la magistratura è di parte, la censura onnipresente e la dissidenza repressa: provate a non votare per Kim Jong-un in Corea del Nord, per dire.
2. Abbiamo potuto votare in modo «limpido». Ci sono regimi ibridi non propriamente dittatoriali in cui però avvengono sistematiche pressioni sulla popolazione e brogli elettorali, che svuotano di senso il ricorso alle urne.
3. Soprattutto, abbiamo potuto votare in un contesto pacifico. Ci sono posti in cui questo «privilegio» è reso impossibile dalle guerre. Lì si «vota» col fucile in mano e gli sconfitti finiscono sottoterra (gli esempi trovateli voi: la scelta è amplissima);
4. Abbiamo addirittura potuto permetterci il lusso di non votare (per sfiducia, pigrizia, indifferenza o per le troppe liste sul campo). Indipendentemente da chi li governerà, i non votanti sono certi di non avere niente da perdere. Altrimenti il tentativo di cambiare le cose col proprio piccolo voto l’avrebbero fatto.
Davanti alle crisi mondiali, rispetto alle elezioni di ieri possiamo permetterci il lusso di non deprimerci. Piacciano o non piacciano i risultati del voto, da noi ha vinto la democrazia. Di questi tempi non è cosa da poco.