La generazione che in questi anni raggiunge l’età della pensione conserva ancora un ricordo vivo del Ticino che fu, un Cantone ancora immerso nella civiltà rurale, con i suoi ritmi lenti, scanditi dai lavori agresti e dal calendario liturgico. Ci riferiamo agli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, un’era ormai remota, largamente pre-televisiva e pre-autostradale. Nelle valli prevaleva ancora un’economia di semi-sussistenza, fondata sull’auto-consumo, con scambi esterni ridotti all’essenziale. Gli introiti delle economie domestiche provenivano soprattutto dal settore primario, al cui centro spiccava l’allevamento, dagli animali da cortile al bestiame grosso. Non c’era miseria, ma certamente un alto grado di frugalità, la consapevolezza che ogni franco guadagnato attraverso lo smercio di latte e latticini dovesse trovare un impiego giudizioso o alimentare il risparmio. Anche i negozi – dove c’erano – riflettevano questa volontà di non sprecare nulla, di procurarsi il necessario senza indulgere al superfluo, di registrare accuratamente entrate e uscite su appositi libretti. Dopo tutto gli anni del razionamento non erano lontani e perdipiù le ombre della guerra fredda non lasciavano intravedere orizzonti di pace e prosperità.
Anche la meteorologia – vista con gli occhi di oggi – era diversa. Temperature rigide, grandi nevicate (disastrose le valanghe del 1951), i geloni in guanti di lana ormai fradici, la tormenta che scorticava le guance. Ma era normale che l’inverno facesse il suo mestiere, era il prodotto naturale della successione delle stagioni. La neve non era accolta come una sciagura che paralizzava traffico e attività, ma come un dato naturale che andava affrontato di buona lena con pale e spazzaneve. Nelle case il presepe rispecchiava, forse in modo inconscio, quanto avveniva nelle stalle, nei mesi della stabulazione forzata. Ovviamente non si era consapevoli che il termine «parzeu» (la mangiatoia in dialetto altoleventinese) derivasse dal latino «praesaepium». Eppure nei fatti questo accadeva nel tepore che gli animali generavano attraverso il respiro, come se effettivamente inscenassero una natività vivente, in cui trovava posto anche il miracolo del parto. A volte, per sorvegliare durante la notte il travaglio della vacca in procinto di sgravarsi, il contadino ricavava con il tagliafieno una nicchia nel piano soprastante…
Nel corso degli anni Sessanta questo mondo dai tratti arcaici, che il professor Basilio M. Biucchi definiva «economicamente sottosviluppato», scivolava nel vortice della «modernità», buttandosi alle spalle non solo oggetti e arnesi (lavatrici al posto dei lavatoi, trattori al posto di cavalli e buoi, mobili in fòrmica al posto di credenze in legno massiccio, moquette al posto di impiantiti), ma anche modi di pensare e di vestire, costumi, mentalità, perfino il codice linguistico dominante, ossia il dialetto. La popolazione agricola calava rapidamente a beneficio dei fondivalle in cui sorgevano supermercati, stabilimenti industriali e la vasta terra promessa dei servizi: amministrazione, banche, assicurazioni, commercio, trasporti, ristoranti e alberghi, ospedali… La motorizzazione e la diffusione degli apparecchi televisivi aprivano finestre su realtà che prima arrivavano mediate dal racconto degli emigranti e dai romanzi di appendice. Il vortice trascinò nel gorgo anche i partiti politici, che sulle prime non capirono cosa diavolo stesse succedendo nell’universo giovanile, una protesta inedita per comportamenti e linguaggi. Ma soprattutto non compresero che in quella tracimazione di idee e rivendicazioni stava emergendo un nuovo soggetto: le donne. Le giovani desiderose di emanciparsi dalle gabbie patriarcali in cui erano cresciute per finalmente chiedere a gran voce sia i diritti politici, sia il riconoscimento del loro ruolo nella società. Nel giro di un decennio il Ticino rurale, ribaltato e frastornato, ha lasciato sul terreno come scarti vegetali la bussola che per secoli aveva orientato il suo non facile cammino. Con quali risultati è tema di confronto e dibattito. I figli di quella stagione hanno ora occasione e tempo per riannodare i fili e trarre le debite conclusioni, personali e collettive.