Dan Flavin a Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa

by azione azione
15 Dicembre 2025

Bisogna andarci quando va via la luce. L’ideale è una di quelle giornate sempre più brevi di dicembre verso il solstizio d’inverno, dopo le cinque circa. L’arco siriaco in cotto, altissimo, del portico d’entrata tipo pronao, appena sceso dal tram tre, cattura lo sguardo e mi ricorda molto quello del palazzo della Triennale. I cui archi sulla parte verso il parco Sempione, abbiamo intravisto in occasione dei Bagni misteriosi di De Chirico non tantissimo tempo fa. È Giovanni Muzio (1893-1982) – architetto incontrato anche per via del tennis club Bonacossa e capiterà di certo ancora sul nostro cammino per l’incredibile Cà Brüta o cos’altro – l’autore di questa severa chiesa neoromanica all’angolo di via Montegani con via Neera. Tra le cui colonne-parallelepipedi in granito che sorreggono il frontone triangolare in cotto con quattro nicchie, di cui due scherzose, dove è iscritto l’arco, passo svelto salendo a due a due gli otto scaloni.

Spingo la seconda porta di legno laterale sinistra di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa: un’altra chiesa, tutta in cotto, risalente al XII che dà il nome al quartiere popolare dove anni fa in una rissa al parchetto un bangladese quarantaquattrenne è stato ucciso a colpi di martello e catena. E le luci di Dan Flavin (1933-1996) tamponano subito il manco di luce fuori. Un blu acqueo avvolge la volta a botte della navata, il transetto in fondo è rosa fenicotteri, l’abside giallo oro. È l’ultima opera dell’artista newyorkese, le cui stanze di luce a Villa Panza a Biumo superiore, sopra Varese, ho cercato di raccontarvi secoli fa su queste stesse pagine come pure, anni dopo, il cortile del Kunstmuseum di Basilea impreziosito dai suoi neon nevralgici e i loro riflessi. Completata sul letto di morte a Long Island, a differenza di tutti i lavori in precedenza dove i neon sono in bellavista, qui la sorgente di luce è celata. Luci-testamento.

Mi siedo, rimanendo in fondo, lo sguardo prospettico. I tre colori blu-rosa-giallo scandiscono, incontrando le linee-guida di questa chiesa del 1932, le tre parti liturgiche: navata, transetto, abside. Risalta così l’arco dell’abside che ricalca la curva alta della navata a volta, ritrovando l’arco annunciato fuori. Per un attimo, entrando, prima, l’ariosità mi ha ricordato quella molto più estrema di Moser nell’Antoniuskirche (1927) a Basilea ispirata dalla Notre-Dame de Consolation (1922) a Raincy di Perret. Però, dopo un po’, l’architettura sparisce per far posto agli spazi spalmati di luce calma.

Uno con il bomber dei Los Angeles Lakers s’inginocchia a pregare, una vecchietta è rifugiata nel rosa del transetto aspettando la messa delle sei. Siamo solo noi tre, qui, ora. Nessuna epifania né estasi. «Si lasciano osservare quietamente» scrive lo storico d’arte Carlo Bertelli – tra le pagine di Cattedrali d’Arte: Dan Flavin per Santa Maria in Chiesa Rossa (1997) a cura di Germano Celant con testi tra l’altro di Mario Perniola e Gianni Vattimo – a proposito delle luci di Flavin. Molto calmanti, soprattutto in questo periodo di folla natalizia opprimente e lucine atroci. Opera postuma, realizzata nel novembre 1996 anche grazie alla Fondazione Prada, in origine nasce da una lettera di don Giulio Greco (1938-2015) – colpito dai suoi neon a Villa Panza – a Dan Flavin che titubante, perché un po’ critico verso la chiesa (figlio di un irlandese cattolico bigotto che gli aveva imposto sei anni in un seminario), accetta. Il verde e l’ultravioletto, trovati nel catalogo ragionato a cura di Michael Gowan e Tiffany Bell, Dan Flavin: The complete lights, 1961-1996 (2004), non li vedo.

Mi alzo e percorro la navata lungo l’asse centrale, tra le panche, ma si distinguono solo tubi al neon blu, ambo i lati, per ventotto metri. Ultravioletto e verde sono a faccia in su, invisibili se non nella mescolanza: amplificano il raggio d’azione e la forza del blu e assumendo quella tonalità acquosa. Entro nel rosa del transetto, nascosto negli angoli, in due sezioni orizzontali che corrono per quasi dieci metri. Stessa lunghezza del tragitto, agli entrambi lati verticali dell’abside, per il giallo oro bizantino. Ma qui dietro le quinte della rappresentazione, l’aura magica è disgregata. Torno nel punto prospettico di prima dove navata, transetto, abside si distaccano per colore, unendosi in questa sacralità al neon spoglia, dimessa, muta, senza gloria, piena di pietà.