Novembre è il mese più crudo: i boschi si spogliano, crollo delle temperature, manco di luce. È necessario un dipinto, non per forza un capolavoro, per rifugiare lo sguardo. Ci vuole un bel martirio concitato. Da giorni sono folgorato dal più grande pittore di cui, forse, non avete mai sentito parlare e un suo martirio in gran formato è conservato dal 1811 alla pinacoteca di Brera. Un anno dopo appena, dunque, dall’apertura delle sue prime sale dove entro – un minuto neanche dopo aver lanciato uno sguardo all’affaccio della sala teresiana della Braidense raccontata un anno fa – verso le cinque meno un quarto di un pomeriggio di novembre inoltrato.
Il martirio di San Vitale, dipinto tra il 1580 e il 1583 da Federico Barocci (1533 ca-1612), straordinario pittore urbinate non conosciutissimo come dovrebbe, si trova nella sala XXVII. Memorizzato il tragitto zigzagante in quattro movimenti, a partire dalle sale napoleoniche ricavate da una ex chiesa demolita e bombardate nel 1943 per essere ricomposte poi da Portaluppi, di cui il garbo eccentrico di due case abbiamo già assaporato in due gite, mi precipito lì. Leggero – per via delle suole vulcanizzate nell’Isère con una speciale innovazione risalente al 1945 e grazie a una gomma naturale di alta qualità proveniente da Parà che dà il nome a queste scarpe prese da un paio di ore – volo tra le sale senza farmi distrarre troppo (è una parola) dagli altri quadri. Non facile, però, passar via, dai due capolavori della sala prima senza ammirarli almeno un po’. Ma di sicuro ci sarà occasione di fermarci più a lungo a guardare lo Sposalizio della Vergine di Raffaello o il Piero della Francesca con quell’uovo di struzzo appeso che illumina ogni giornata.
Con questo preludio-assaggio di bellezza estrema negli occhi, passo nella sala successiva. Dove l’incanto dei colori, distribuiti brumosi lungo la tela tumultuosa di quasi quattro metri di altezza con pennellate pre-impressioniste, ravviva l’atroce morte di San Vitale seppellito vivo. Lo sfondo verde sottobosco a calce di questa sala, aiuta la vista del visitatore dal 2016, merito dell’ex direttore anglo-canadese Bradburne che ha portato una ventata di stile nell’allestimento e recuperato, tra l’altro, molti marmi di Portaluppi. Un battiscopa in marmo nero screziato, credo carnico come all’entrata di Villa Necchi perché me lo ricorda molto, corre intorno a tutta la sala ventisette impreziosendola senza sfarzo.
Avvelenato a Roma nel 1565 per la troppa bravura pare, ma sopravvissuto e ritornato a Urbino a dipingere con lentezza decennale, Barocci vela tutto l’affollatissimo dipinto commissionatogli dai monaci cassinesi per l’altare della basilica di San Vitale a Ravenna, con la sua caratteristica vaghezza. «Vago e devoto» è il ritratto lampo di Giovan Pietro Bellori in Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni (1672) che si ritrova nel sottotitolo di una monografia su Barocci del 2008 di Stuart Lingo: Allure and devotion. Un martirio dal pallore lunare mi accarezza lo sguardo e conforta lo spirito, attraverso innanzitutto la sintesi sottrattiva. Un rosso carminio molto annacquato si trova in quattro punti nevralgici attorno al santo capitombolato: il mantello di un soldato, il braccio di una specie di sultano, un drappo di un giovane con cappello di paglia e badile, il vestito spiegazzato tipo Madonna di una donna che allatta un bimbo e mette una mano protettiva sulla spalla di un’altra sua bambina. Il blu è posto speculare lì di fronte, nel mantello indaco per terra, tra un badile e un cane. Mentre il giallino maionese è centrale nel gilet di una figura che prende la scena: tiene una pietra pronta per essere gettata contro il santo che è il motivo di pericolo che si spande per tutto il dipinto pervaso da una coreografia protobarocca.
L’inscenamento teatrale s’innesca attraverso i parergon o cose piccole di cui Barocci è maestro: sono gli elementi marginali alla scena principale, dal sapore di curiosità da natura morta fiamminga, a coinvolgere lo spettatore. È il cane da caccia in un angolo, a portata di sguardo se si pensa alla collocazione originaria, che osserva una lucertola, a portare dentro il dipinto. O la bambina che guarda il martirio, la mano appoggiata accanto a una ghiandaia, vicino a delle ciliegie che datano il martirio di San Vitale a fine aprile, a spingerci dentro la feroce vaghezza.