150 anni dopo, Carmen resta una sfida culturale

by azione azione
10 Novembre 2025

Il libro di Patrick Taïeb illumina la vita di Célestine Galli-Marié, prima interprete dell’opera di Bizet

Chi pensa che la professione del cantante non comporti rischi estremi dovrebbe leggere la vita di Célestine Galli-Marié, colei che fu la prima a vestire i panni leggendari di Carmen.

Una vita specchio di una spietata condizione femminile, riservata anche alle poche che riuscivano a passare dai ruoli di contorno a quelli, come si diceva allora, di «cantante forte». La narra un prezioso libro di Patrick Taïeb, Et Célestine Galli-Marié créa Carmen (Actes Sud/Palazzetto Bru Zane), pubblicato in occasione dei 150 anni dalla prima rappresentazione del super-capolavoro di Georges Bizet.

A metà Ottocento, quando metropoli, cittadine e paesoni costruivano teatri d’opera, era possibile perfino morire di paura sul palcoscenico. Un’atmosfera di tensione precedeva il debutto di un artista, perché il pubblico, dopo la prima sera, comunicava il suo gradimento o il decisivo altolà alla gloria e ai contratti. Potevano accadere fatti tragici, come a Caen, dove una certa Madame Faugeras che ricopriva ruoli secondari di attempata «duegna», si presentò in un ruolo non consono alla sua età vocale per aiutare l’impresario a corto di prime voci. Appena mise piede in scena venne accolta da fischi e grida, «Alla porta!». La sventurata s’accasciò sull’istante, fulminata da un colpo apoplettico.

Un gioco al massacro in cui sguazzavano giornalisti senza scrupoli, spesso legati a impresari desiderosi di eliminare gli artisti dei rivali. Così si potevano leggere critiche assassine come quella che a Tolosa salutò il debutto della Galli-Mariè nella Favorita di Donizetti: «ho cercato invano di scoprire le note che caratterizzano i termini del suo impiego, ma ho sentito solo una voce fresca nel registro medio (…) ha una sola corda nel suo arco e la fa vibrare come può; non chiedetele altro, la più bella figlia del mondo non può dare quello che non ha».

L’atmosfera teatrale bellicosa, che a un neofita sarebbe parsa una gabbia di pazzi, finiva spesso in scazzottate sedate solo dall’intervento della forza pubblica. In questi ameni luoghi di spettacolo crebbe la creatrice dell’opera francese più famosa al mondo, Carmen. Il padre di Célestine, Claude Mariè de l’Isle, era un tenore «arrivato» che cantava all’Opéra di Parigi; le sorelle Paola e Irma furono eccellenti cantanti di operette, quest’ultima sposò il celebre direttore d’orchestra Eduard Colonne; l’unica sorella non cantante, Mecéna, si distinse per un fatto di sangue che sembra uscito dal finale di Carmen: fu pugnalata per strada, per fortuna non mortalmente, dal cugino-marito, pochi mesi prima dell’andata in scena del capolavoro di Bizet.

Célestine aveva capelli bruno scuri e occhi neri che «sprizzavano passione come frecce magnetiche»; «un pezzo di carbone» prescelto per battezzare zingare, magrebine, spagnole, mediterranee, spesso in ruoli molto travestiti di Offenbach, come nella parte di Venerdì nel Robinson Crusoe e Fantasio, dove portava barba e parrucca rossa. Spesso era la rivale di un bel soprano, come la zingara trovatella Mignon nell’opera di Ambroise Thomas, rivale della bionda Filina: lo stesso che accade in Carmen, con la ragazza di campagna Micaëla (invenzione dei librettisti), che spera di sposare Don José, perdutamente innamorato della diabolica sigaraia Carmen.

Célestine era gradevole, ma non bella. Riuscì a sfondare non avendo il fisico slanciato della biondissima diva dell’Opéra, Cristina Nilsson, la scandinava che furoreggiava come Margherita nel Faust, né le forme giunoniche che eccitavano le teste coronate di mezz’Europa della regina delle operette di Offenbach, Hortense Schneider.

La chiamavano la pinturlureuse, l’impiastricciata, ironizzando sul fatto che nella sua recitazione rivelava una passione per la pittura che la spingeva verso una gestualità ponderata a lungo. Obiettivo: far sì che ogni personaggio fosse animato da un temperamento proprio: dal saltellare dell’indigeno Venerdì all’abbandono di Mignon, alle molteplici sfaccettature di Carmen: la sovversiva agitatrice delle coscienze borghesi nella grande «tube», l’Habanera, la seduttrice ispanica nella sivigliana e nella canzone zigana ballata (la Romalis), incarnazione della nascente coscienza della libertà femminile immortalata nel tragico finale dell’opera, quando Carmen non retrocede né alle previsioni di sventura, né alle minacce, preferendo la morte al ritorno con il folle Don José.

I librettisti di Carmen, Henri Meilhac e Ludovic Halévy, mutarono (non poco) il carattere feroce e impassibile della novella di Prosper Merimée, trasformando la relazione fra un pluriomicida (aveva ucciso anche il marito di Carmen, Garcia lo Sguercio) e una sigaraia in qualcosa di molto lontano dalle storielle a lieto fine dell’Opéra-Comique. Carmen doveva debuttare sulla seconda grande scena parigina, gettando nel terrore il suo co-direttore, Adolphe de Leuven. Quando gli dissero quale soggetto era stato scelto, sbottò: «Carmen! La Carmen di Merimée … Non è quella assassinata dal suo amante? In mezzo a ladri, zingari e sigaraie? All’Opéra-Comique! Il teatro delle famiglie! Il teatro dei fidanzamenti! Metterete il pubblico in fuga […] è impossibile».

Portare la morte all’Opéra-Comique costò a Carmen e ai suoi geniali autori critiche feroci; fu uno scandalo, un semi-insuccesso/successo. I coltelli nel teatro delle famiglie non erano ancora da tutti tollerati, nonostante di sangue a Parigi ne fosse scorso molto in quegli anni: dopo la disfatta nella guerra con i prussiani, venne l’assedio di Parigi, poi la Comune e la reazione con le fucilazioni di massa dei comunardi. Célestine, definita alla prima, «virago in gonnella», «mefisto femmina» si tolse la soddisfazione di portare al trionfo l’opera di Bizet, riprendendo il ruolo nel 1883. Era diventata un mito: «L’intelligente attrice, invece di attenuare il personaggio, lo disegna con una matita energica e farouche, alla Goya; accentuando gli istinti selvaggi, non nuoce all’insieme perché respinge i tentativi di catturare la simpatia sulla sua crudele figura.

All’ultimo atto, quando Carmen fugge davanti a José che la insegue coltello alla mano, Madame Galli-Marié ha tradotto il terrore che invade la miserabile creatura con un atteggiamento e un’espressione così intensi e veri che la sala intera è scoppiata in applausi».

Bibliografia
Patrick Taïeb, Et Célestine Galli-Marié créa Carmen, Actes Sud/Palazzetto Bru Zane, pp. 365, 12 €