«Siamo più dei nostri corpi, più dei nostri vestiti»

by azione azione
10 Novembre 2025

Lorenzo Cantoni, curatore della mostra luganese Habitus Fidei, racconta il senso umano del vestire a partire dalla Bibbia e dagli abiti delle Confraternite religiose in mostra a Villa Ciani

Quando lo incontriamo nel suo ufficio all’USI, il professor Lorenzo Cantoni sta chiacchierando al computer con l’avatar di un «confratello digitale», che risponde diligentemente e con competenza alle sue domande sugli abiti e la Bibbia, lo stesso campo d’indagine esplorato dalla mostra «Habitus Fidei», dedicata agli abiti delle confraternite religiose e aperta fino al 23 novembre a Villa Ciani a Lugano. Un evento culturale tra il fashion e la spiritualità che promette di sorprendere e far riflettere. Perché non si tratta solo di tessuti e fogge, ma di un viaggio antropologico e spirituale nel significato del vestire.

A guidarci in questo percorso è appunto Lorenzo Cantoni, professore ordinario all’USI di Lugano, dove dirige l’Istituto di Tecnologie Digitali per la Comunicazione, insegna comunicazione digitale applicata alla moda e al turismo, ed è direttore del Master in Digital Fashion Communication. È lui che ha curato la mostra a Villa Ciani con il direttore del Museo della grafica di Pisa Alessandro Tosi e avvalendosi dell’aiuto dell’esperto ticinese di confraternite Davide Adamoli.

Cosa significa vestirsi?

«Tutto è cominciato con una domanda semplice: cosa significa vestirsi?» ci spiega. «Mi occupo di comunicazione digitale, anche nel campo della moda, e ho sempre avuto una curiosità profonda per il senso del vestire. Quando mi è stato proposto di intervenire a un convegno sulle confraternite, ho deciso di studiare il tema degli abiti confraternali. Da lì è nato un itinerario di ricerca che ha incrociato teologia, storia dell’arte e antropologia». La mostra ha avuto una prima tappa al Museo della Grafica e al Museo Nazionale San Matteo a Pisa, dove è stato possibile ammirare opere d’arte prestigiose di autori come Masaccio o Beato Angelico, e una seconda nella chiesa dei santi Giovanni e Reparata a Lucca. Ma, dal punto di vista degli indumenti, l’edizione luganese di Villa Ciani sarà la più ricca: presenterà venticinque abiti, quasi tutti ticinesi, accompagnati da oggetti processionali, quadri, profumi e installazioni multimediali. Nel retro dell’ufficio il professor Cantoni me ne mostra alcuni, uno in tela grezza della confraternita della Buona Morte, che ha un suo piccolo museo in vetta al San Salvatore, e un’altra, rosso fuoco, della Confraternita del Santo Sacramento, con tanto di simbolo affisso sull’abito, sbalzato in argento. Per realizzare l’esposizione Cantoni ha letto di fino i Vangeli cercando ogni riferimento ad abiti e tessuti. «È sorprendente quanto siano presenti. Dalle fasce di Gesù bambino alla tunica contesa sotto la croce, passando per le parabole in cui il vestire ha un ruolo centrale». Come quella del banchetto nuziale (Matteo 22, 1-14) con l’invitato senza abito adatto, cacciato dalla festa, e quella del figliol prodigo (Luca 15, 11-32), a cui il padre riserva l’abito più bello, l’anello e i calzari. «In entrambi i casi, l’abito è il linguaggio dell’accoglienza, della dignità restituita, della festa. Anche San Paolo, che di mestiere faceva tende, usa spesso metafore sartoriali», osserva lo studioso: «Svestite l’uomo vecchio, rivestitevi di Cristo». Con lui l’abito diventa simbolo di trasformazione spirituale.

Il significato del cappuccio

A Lugano, però, gli abiti in mostra sono quelli delle confraternite, ovvero di quelle associazioni laicali nate nel Medioevo, formate da fedeli che si riuniscono per vivere la fede in modo comunitario e concreto con finalità religiose, caritative e sociali. Che abito indossa il confratello? «Un abito che non serve per ragioni di pudore o per proteggersi dal freddo, ma una sopra-veste, segno espressivo e comunicativo. Anche il cappuccio, che oggi tendiamo a interpretare come qualcosa di losco, richiama in realtà a un virtuoso anonimato: “Se fai il bene, fallo nel segreto” dice il Vangelo.» Cantoni si alza e mi porge un vecchio volume: è il registro della confraternita luganese di San Rocco, che ha vestito per secoli gli orfani e i poveri. Le ultime donazioni di vestiti e scarpe, tutte diligentemente annotate, risalgono al 1964! «Vestire gli ignudi era una delle opere di misericordia. E l’abito era il segno concreto di quella carità». Oltre agli abiti, la mostra presenta antichi quadri originali (tra cui uno attribuito a Procaccini), bastoni processionali, profumi simbolici (muschio bianco, mirra, nardo, rosa e incenso), e video, oltre al già citato «confratello virtuale» creato dall’intelligenza artificiale, capace di rispondere alle domande dei visitatori. «Abbiamo voluto creare un’esperienza multisensoriale. I profumi, ad esempio, aiutano a evocare concetti spirituali. E i video raccontano storie, come quella della sarta che si è confrontata con la fede cucendo un abito confraternale.» Il discorso non è solo spirituale. «Vestirsi non significa solo coprirsi. È un atto profondamente umano, che esprime intelligenza e identità. La moda, spesso considerata qualcosa di superficiale, è in realtà un fenomeno culturale potente». Non a caso, ricorda Cantoni, le mostre più visitate al Metropolitan Museum e al Victoria & Albert Museum erano sulla moda. «Perché la moda ci aiuta a interpretare la cultura, la storia, la società. Anche dove non ci sono monumenti, ci sono abiti che raccontano chi siamo».

Ieri e oggi

Le confraternite religiose sono un mondo ancora vivo ma che appartiene soprattutto al passato. «Sì, uno studio recente ne ha identificate oltre trentamila in Europa, con circa sei milioni di membri. L’abito gioca un ruolo analogo anche in altri contesti, per esempio in alcune subculture contemporanee, come lo streetwear o il mondo dello sport, che hanno codici vestimentari che creano appartenenza. Manca la dimensione spirituale, certo. Ma come per l’abito confraternale anche qui ci sono divise che manifestano un impegno, una scelta di vita. Anche gli oggetti del vestire dicono molto di noi, in fondo il recente clamoroso furto al Louvre di Parigi, riguarda parure di gioielli che erano indossati dai potenti per mostrare il loro rango. Ma i diademi si usano ancora oggi in diversi ambiti, dalla coroncina della reginetta di bellezza a quella d’alloro con cui si cingono la testa i laureati». Cantoni, che da sei mesi – proprio a seguito delle conoscenze maturate per realizzare la mostra – è entrato egli stesso a far parte della confraternita di San Rocco, conclude con un’immagine potente: «Molti confratelli chiedono di essere sepolti con l’abito della confraternita che è l’abito della festa, l’abito definitivo. Un segno che ci ricorda che siamo più del nostro corpo, più dei nostri vestiti». «Habitus Fidei» non è solo una mostra di abiti. È un invito a riflettere su chi siamo, su come ci presentiamo al mondo e su cosa vogliamo comunicare. Un viaggio che parte dalla stoffa e arriva al cuore della nostra umanità.