Primi piani: Alfonso Zirpoli spiega la ragione per cui sarebbe fondamentale istituire un centro di ricerca che possa dar vita a un archivio fotografico di opere fatte come si deve
Ha alle spalle quasi sessant’anni di fotografia, un percorso vasto e articolato che lo ha visto impegnato sia come professionista – tra ritratto, riproduzione d’arte, fotografia d’architettura e reportage, in Ticino e altrove – sia come artista, con un corpus di opere esposto e pubblicato più volte. Eppure, di tutto questo preferisce non parlare: per riservatezza, per pudore, ma anche perché oggi il suo interesse è rivolto agli archivi fotografici e a ciò che custodiscono.
Siamo in compagnia di Alfonso Zirpoli nel suo Deposito di Fotografia (ex birreria di Bellinzona) a Carasso. E davvero di deposito si tratta: un luogo colmo delle tracce di quanto da lui realizzato e acquisito negli anni. Librerie strabordanti di libri fotografici e cataloghi di mostre sue e di autori vari, attrezzatura fotografica, stampe in ogni dove, manifesti, brochure… Ovunque si punti lo sguardo s’incontra fotografia, la materia che a partire dall’adolescenza ha impregnato la sua esistenza riempiendolo di soddisfazioni, dilettandolo, facendolo viaggiare e permettendogli di conoscere persone e culture che non avrebbe altrimenti mai sognato d’incontrare.
Dall’interno del suo Deposito, tra stampe, negativi e memoria, Alfonso Zirpoli difendela fotografia dall’oblio
Alla fotografia ci arriva un po’ per caso. Appassionato di disegno fin da ragazzo, contro il volere del padre si iscrive alla CSIA, dove incontra, inaspettata, la fotografia. È amore a prima vista: decide che quello sarà il mestiere della sua vita. Si forma seguendo un apprendistato presso un buon fotografo ticinese, assai puntiglioso e con un solido sapere tecnico. Ne assorbe gli insegnamenti, ma a Zirpoli piace soprattutto sperimentare. Ed è così che, terminato l’apprendistato – siamo sul finire degli anni Sessanta – passa un periodo affiancando diversi altri fotografi a livello internazionale per consolidare la sua formazione.
Per un altro caso della vita, viene scelto da una sua ex docente, Luisa Volonterio, per farle da supplente nei suoi periodi di assenza. Comincia così un’esperienza d’insegnamento che si protrarrà per undici anni. Esperienza che lo porterà anche nel seguito a continuare a dare corsi e workshop di fotografia, tanto in Ticino come pure in giro per il mondo.
Apre il suo studio a Bellinzona nel 1974. Oltre alla sperimentazione, che ha continuato a perseguire, ha fin da subito amato e approfondito il ritratto, la figura umana nelle sue varie sfaccettature. Viaggiare fa parte del suo DNA, per cui ha lavorato per tante associazioni e ONG in Africa, Asia e Sud America.
Ma come abbiamo anticipato, oggi a lui interessano gli archivi e per spiegarne la ragione parte da una constatazione: «La fotografia, quella con la F maiuscola – Zirpoli ce lo dice battendo il pugno sul tavolo – è andata scomparendo, non esiste più. Sotto vari punti di vista». Il fotografo bellinzonese lamenta anzitutto la perdita di una formazione a tutto tondo: «La mia generazione non poteva inventarsi la fotografia, per cui dovevi acquisirne l’ABC, conoscere la tecnica, la teoria, la sua storia. Se avevi appreso e in più ci mettevi del tuo creativo, il tuo piacere personale, la cosa poteva funzionare bene. Senza queste prerogative, ti mettevi a copiare gli altri. E quelli che copiavano non venivano selezionati». Si trattava di una formazione dura, talora anche spietata, che produceva una selezione naturale. Chi riusciva a uscirsene indenne e a divenire «fotografo professionista» era perché ne aveva le qualità , perché aveva dimostrato di possedere una capacità operativa e propositiva personale di valore.
Poi, l’impostazione del lavoro: «All’epoca tu pensavi prima di realizzare un’immagine; pensavi a che cosa potevi fare». Mentre oggi – anche grazie alla duttilità del digitale – prevale una sorta d’improvvisazione (prima si scatta, poi si corregge), un tempo si rifletteva sul come approcciare il soggetto, quali mezzi utilizzare, quale taglio, quali luci, a quale soluzione estetica puntare. E a tal fine, non secondaria era la frequentazione di architetti, di artisti, di professionisti della comunicazione, con i quali confrontarsi.
Pure importante veniva considerata la ricerca e il consolidamento di un proprio stile, attraverso la sperimentazione creativa, ponendosi in un dialogo continuo col lavoro di altri fotografi, visitando mostre, sfogliando libri e studiandone le immagini, non per copiarle, ma per costruirsi un fertile bagaglio di cultura fotografica.
Con l’avvento del digitale, ormai tutti sono diventati fotografi: «Ti fa rabbia quando vai su Facebook e guardi… sono nati un mare di fotoclub, che producono una marea di corsi di fotografia e fotografi, che fanno tutti la stessa cosa. Ma quello che fa rabbia è che vedi delle cose obbrobriose. Ciò vuol dire che questi non hanno studiato, non hanno mai aperto un libro di fotografia. Se avessero aperto un libro, si vergognerebbero di pubblicare o di realizzare lo scatto che pubblicano». Ben poco di questo marasma d’immagini sopravvivrà in quanto col digitale si è pure andata a perdere la necessità di produrre delle stampe di ciò che si è fotografato – che ormai viene visto a schermo per essere consumato il tempo di uno sguardo e poi venir per sempre rinchiuso nella memoria di hard disk e di chiavette usb. Della fotografia è svanita la tangibilità .
Partendo da queste considerazioni, l’intento di Zirpoli è di lanciare con forza un appello – allo Stato, agli enti, alle fondazioni – affinché si costituisca un Centro di ricerca in memoria della Fotografia, di quella con la F maiuscola (ricordiamo che, per contro, esistono – grazie al lavoro del Cantone – l’archivio fotografico etnografico, www4.ti.ch/decs/dcsu/cde/collezioni/archivio-fotografico e diversi fondi fotografici, www3.ti.ch/DECS/dcsu/ac/asti/cff).
Al di là della provocazione, Zirpoli denuncia la scomparsa del lavoro di una generazione di fotografi professionisti che con grande dedizione e perizia hanno costruito e assemblato attraverso il loro lavoro un patrimonio di conoscenza – fatto dalle immagini prodotte, ma anche quelle da loro raccolte e collezionate; da qui, l’urgenza di preservarne gli archivi onde evitarne la perdita.
Questi archivi custodiscono un sapere antropologico relativo al nostro territorio – degli aspetti concreti e immateriali che lo costituiscono – di grande rilevanza, dalla cultura alla politica, dall’industria all’arte: personaggi, modi di vivere e di lavorare, uso del territorio, le ritualità e i tempi delle comunità , e così via. Fare in modo che le nuove generazioni abbiano la possibilità , guardando al passato, di meglio capire il loro presente, è il compito che Zirpoli ha deciso di assumere per i prossimi anni sensibilizzando e sollecitando chi, a livello di istituzioni, di questa responsabilità dovrebbe farsi carico: «Correte a creare… mettete a disposizione i fondi per creare un centro di ricerca. Non di certo pensando solo a me: il Ticino ha avuto dei personaggi che si sono occupati di fotografia, che hanno vissuto con la fotografia, non il dilettante che alla domenica va a fare le foto – talvolta anche di qualità ! –, ma fotografi che hanno sofferto, mantenuto delle famiglie, che hanno vissuto per la fotografia. Tutto quel loro lavoro diventa memoria storica. Queste cose in Ticino ci sono. Vediamo di salvarle prima che si perdano. Io mi batterò per gli anni che mi restano per riuscire a realizzare questa cosa. Poi vedremo. Anche perché la mia preoccupazione è che, se noi domani ce ne andiamo, testimoni di un tempo che è stato, nessuno sa cosa abbiamo raccolto, nessuno ne conosce il valore, si perde tutto ed è un peccato».
 
			         
			         
			        