Il «Bèrgom» e la croce del Pettine

by azione azione
6 Gennaio 2025

L’escursione in terra leventinese di un viandante curioso della storia dei segni di fede e non solo

All’alba, il minuscolo nucleo di Sompréi è ancora immerso nel silenzio. Non si vede anima viva, solo un impalpabile filo di fumo esce da un comignolo a indicare che qualcuno vi ha passato la notte. Immagino che, quel qualcuno, se ne stia lì dietro una finestra con una tazza di caffè caldo in mano a osservare l’ignaro viandante, il quale, messosi lo zaino in spalla, s’incammina lungo il sentiero che sale verso l’alpe di Chièra.

Muovo i primi passi nell’erba umida. Sono passi morbidi, quasi timidi, come se non volessi intaccare la quiete del luogo. Ma in realtà cammino sempre così, in montagna, con lentezza, assaporando tutto ciò che mi offre la natura, la sua intima bellezza, i vasti orizzonti, l’incontro inaspettato con un animale, che, fiducioso, si allontana senza fretta, oppure scompare come un lampo nella boscaglia. Amo della montagna la vastità e la potenza dei suoi paesaggi, la smisurata dimensione del silenzio, divenuto al piano ormai merce rara, e l’aria frizzante, che a ogni respiro sembra pulirti l’anima.

Il sentiero si lascia alle spalle i tetti di Somprei e sale sui prati macchiati da una rada vegetazione. Addossata a una roccia, una cappella che non ha niente di antico, fatta erigere da privati nel 1993, custodisce dietro un’inferriata, che la protegge, la statua lignea di una Madonna con bambino opera di Raffaello Calgari.

Poco più su, inizia un bosco odoroso di resina, che mi accompagna senza fatica al vasto pianoro dell’alpe di Chièra. Un lungo edificio dal tetto in lamiera sbuca al margine dei pascoli. È circondato da muretti a secco un po’ sbilenchi, che delimitano piccoli prati ricoperti da spessi tappeti di romice alpino, i lavàzz, l’immancabile malerba, verde e coriacea, che affolla con la sua ostinata vitalità gli spazi attorno alle stalle, nutrita generosamente dal concime lasciato dalle bestie in alpeggio.

L’alpe di Chièra, oggi proprietà della Degagna generale di Osco1), era sfruttato nei secoli passati come pascolo per le bestie da soma, con cui le comunità leventinesi assicuravano il trasporto delle merci sull’asse del San Gottardo.

L’alpe di Chièra

Come a voler evocare la memoria antica di quell’attività così importante per l’economia della valle, un paio di cavalli pascolano tranquilli accanto al sentiero, indifferenti al mio passaggio. Da una fontana zampilla acqua chiara e gelida: ne bevo un sorso, grato per il fresco regalo. In altre stagioni l’avevo trovata vuota, muta, con quella tristezza discreta delle cose dimenticate. Mi era rimasta appiccicata addosso, allora, una malinconia leggera, che solo la grandiosità del paesaggio era riuscita piano piano a sciogliere. L’alpe di Chièra giace su un vasto terrazzo glaciale, da cui si gode uno straordinario panorama delle montagne leventinesi.

Al di là della valle, il massiccio del Campo Tencia, con la cima omonima, che veglia dall’alto sui miseri resti del suo ghiacciaio, il Pizzo Penca, il Poncione dei Laghetti e il Pizzo Croslina. Un po’ più su, la conca in cui si nasconde il lago del Tremorgio, con, alle spalle, il Pizzo del Prévat e il Pizzo Meda, immobili custodi del Passo Campolungo, riconoscibile per quel suo sinuoso e candido affioramento di marmi dolomitici, che raccontano la storia geologica di quest’angolo di catena alpina.

Da lì passava, nei primi anni Cinquanta, la lunga teleferica, che traghettava dalla Leventina all’alta Lavizzara il materiale da costruzione per la diga del Sambuco. Un’opera ardita, che ha ispirato ai nostri giorni il progetto di un collegamento turistico tra Ambrì e Fusio. Una funivia rimasta, per ora, nel cassetto colmo di quelle idee che forse non vedranno mai la luce. Basta uno sguardo per rendersi conto che l’ampio terrazzo che sto attraversando è un ambiente eccezionale e unico nel suo genere, incluso a giusto titolo in vari inventari cantonali e federali. Oltre i pascoli dell’alpe si estende infatti una vasta brughiera ricoperta da una vegetazione inconsueta, in cui convivono, su un tappeto di mirtilli, ginepri e rododendri, il pino silvestre e il contorto pino mugo, abituato a sfidare il vento restando abbracciato alla montagna.

L’assortimento di essenze ha colonizzato la distesa di rocce montonate che formano il pianoro, spesso celandone la singolare morfologia, fatta di anfratti scavati nei millenni dal lavorìo del ghiacciaio. L’acqua raccolta nelle depressioni ha formato stagni e zone paludose, habitat di tritoni alpestri e altre minuscole creature acquatiche e alate, preziosi biotopi animati dal contorcersi del coltellaccio natante e dal nervoso vibrare dei bianchi pennacchi dell’erioforo. Il sentiero si arrampica ora, deciso, sul pendio scosceso che conduce ai laghi di Chièra. Della loro presenza non avverto, al momento, che qualche indizio sottile: ruscelletti vivaci che scorrono tra l’erba alta, svelandosi a tratti con un mormorio limpido e giocoso. Quei due specchi d’acqua incantevoli, incastonati tra le montagne, che ho imparato a conoscere nelle loro mille metamorfosi, oggi non sono però la mia meta.

Stavolta mi attira un’altra forma, più austera e misteriosa: una sorta di solitaria piramide naturale, che si staglia un poco più a nord. Un declivio spoglio e severo, coperto solo da un manto erboso punteggiato di rocce e inciso dalle linee regolari dei ripari antivalangari: il Monte Pettine.

Sulla cima, l’imponente croce d’acciaio, visibile da tutto il fondovalle, si erge luminosa e verticale, come se cercasse il cielo, trafiggendone le profondità con la sua presenza silenziosa. Costruita dalla ferriera Cattaneo di Faido, è la più grande del Ticino e se ne sta lì, sulla vetta, dal 1901, eretta dai cattolici leventinesi in risposta all’appello di Papa Leone XIII, il quale all’alba del nuovo secolo dà inizio a una corsa alla sacralizzazione delle montagne, invitando i fedeli a coronarle con un segno della Redenzione.2)

«Ti racconto un aneddoto»– mi aveva detto una volta Edo Tagliabue3), mentre ce ne stavamo seduti ai piedi della croce a contemplare il paesaggio.

«Avevano incaricato un Bergamasco di portare quassù tutto il cemento necessario alla costruzione del piedistallo, per 6 centesimi il chilo. E ne ha dovuto portare una grande quantità, poiché in occasione della riattazione ne abbiamo trovato un blocco enorme. Gli esponenti della “Faido bene”, che finanziavano l’opera, volevano assicurarsi che il Bèrgom facesse un buon lavoro e dal fondovalle, con un potente cannocchiale, ne controllavano la salita».

A osservare quel curioso conciliabolo, non sarà mancato qualche villeggiante sorpreso e divertito; dopotutto, siamo nel cuore del fervore turistico di Faido, località divenuta, a cavallo del nuovo secolo, un rinomato e vivace centro di villeggiatura, animato da vacanzieri in cerca d’aria buona e contatto con la natura (vedi articolo correlato).

Ma non è il momento di perdersi in chiacchiere. Mi attende l’ultimo tratto, il più aspro e severo. Il sentiero si arrampica a zigzag lungo il costone, che precipita vertiginoso nell’occhio blu profondo dei laghi. A scandire la salita, il ritmo irregolare dei ripari antivalangari: muretti a secco ben squadrati, incrostati di licheni – i più antichi risalgono alla fine dell’Ottocento – alternati a gabbie di ferro colme di pietre, segno di interventi più recenti. Un ultimo sforzo… ed eccomi in vetta. Davanti a me, la grande croce, tredici metri e mezzo per sei, svetta come un faro di fede e memoria, avvolgendo la valle in un abbraccio solenne e protettivo.

«Quando l’abbiamo portata giù per restaurarla, dopo novant’anni che se ne stava ritta quassù» – mi raccontava ancora Edo Tagliabue – «una sera, dopo un tremendo temporale, mi telefona una signora e mi dice: “Da quando avete levato la croce, i fulmini sembrano più vicini. Riportatela su al più presto, che continui a proteggerci anche dalle tempeste peggiori!”».

A quel ricordo, impensierito, alzo gli occhi al cielo. È limpido e azzurro, rigato appena da morbidi ciuffi di nuvole. Per fortuna.

E poi, all’improvviso, un profondo silenzio. Stranamente, tutti i rumori della valle sembrano ammutoliti e anche il tempo pare essersi fermato. Intorno a me, l’increspatura meravigliosa di un mare di cime, che si moltiplicano a perdita d’occhio, fin dove osa spingersi la vista.

Là sotto, i laghi ancora irrigiditi da frantumi di ghiaccio, mentre, in basso, la Leventina appare come un tappeto verde chiaro disteso tra le montagne: con i suoi villaggi, la striscia grigia dell’aeroporto, il serpente lucido dell’autostrada, la nuova via delle genti, su cui passa tutta l’Europa.

Note

1) La degagna, ente presente soprattutto in Leventina, era una parte della vicinanza (Comune) e si occupava della gestione degli alpeggi e dei boschi, dei diritti di soma e della manutenzione delle strade.

2) «È opportuno che con qualche segno sensibile e duraturo si trasmetta ai posteri il sacro entusiasmo col quale si è prestato omaggio a Gesù Cristo Redentore. Sarà bella cosa che sulla cima delle nostre montagne, s’alzi gigante, quasi a tutelare le sottoposte regioni, il segno della Redenzione. Veggendolo il nostro cuore si sentirà attratto verso Dio e Dio misericordioso dilaterà il cuor suo sopra di noi, perché nella croce è la nostra salute, la nostra vita, la nostra Resurrezione».

3) Edo Tagliabue, allora, era presidente del Patriziato di Faido e grande appassionato delle testimonianze storiche presenti sul territorio. Aveva, tra gli altri suoi interventi, portato a termine la ristrutturazione della vecchia segheria, mossa dall’acqua della Piumogna, e, nel 1991, era stato il promotore, con padre Giuseppe Busser, del restauro della croce del Pettine.