Ruanda e Qatar: due storie profondamente diverse

by azione azione
6 Ottobre 2025

Quando nel 2021 l’Unione Ciclistica Internazionale decise di attribuire al Ruanda l’organizzazione dei Mondiali del 2025, accanto alle reazioni di soddisfazione per la prima edizione africana della storia, si elevarono anche quelle di coloro che temevano un flop. Sia per questioni organizzative, sia per ragioni politiche. L’UCI ci ha creduto fino in fondo e, a complemento del processo di mondializzazione iniziato negli anni 90 dall’allora presidente Hein Verbruggen, ha accettato la sfida. A ruote ferme, ha avuto pienamente ragione. È stato un grande mondiale dal punto di vista tecnico e logistico. Baciato dall’entusiasmo danzante degli spettatori. Nobilitato da un percorso molto impegnativo che ha inevitabilmente messo in risalto gli uomini e le donne più forti.

Marlen Reusser e Remco Evenepoel nelle cronometro. Re Tadej Pogacar nella prova regina.

Di dubbi sul buon esito ne avevo pochissimi. Gli echi del terribile genocidio messo in atto dalle forze estremiste Hutu ai danni dei Tutsi erano già spenti da un trentennio. Il Fronte patriottico, guidato da Paul Kagame, attuale presidente della repubblica ruandese, aveva avviato un processo di ricostruzione che ha traghettato un Paese dilaniato verso la modernizzazione. Kagame è un personaggio chiacchierato per il suo piglio, diciamo così, eccessivamente decisionista, ma ha saputo proporre un modello di sviluppo africano riconosciuto anche dall’Occidente.

L’Africa, prima del Mondiale conclusosi otto giorni fa, non era proprio a digiuno di ciclismo. Già nel 1910, tre corridori algerini avevano preso parte al Tour de France. Ma a quell’epoca, gli algerini erano, a tutti gli effetti, cittadini francesi. Tre anni più tardi, un corridore africano de jure e de facto si iscrisse alla Grande Boucle. Alì Nefati era tunisino. Aveva solo 18 anni. In un contesto in cui il Tour de France era già di per sé durissimo per le star che disponevano di assistenza tecnica e medica, la corsa per lui fu un autentico calvario. Ci volle tuttavia quasi un secolo per vedere una qualificata presenza africana nel mondo del pedale. Nel 2007 Robert Hunter, in gioventù tesserato per il VC Lugano, fu il primo africano a vincere una tappa al Tour de France. Impresa ripetuta nel 2019 da Daryl Impey e nel 2022 da Louis Meintjes. Tutti e tre sudafricani. Ma tutti e tre di razza caucasica.

Lo scorso anno, l’eritreo Biniam Girmay, di frazioni ne ha portate a casa tre. Un trittico epocale che potrebbe aprire la via a molti altri corridori del suo continente, come aveva fatto il maratoneta etiope Abebe Bikila dopo gli ori conquistati ai Giochi Olimpici di Roma del 1960, e di Tokyo del 1964. Per correre, basta poco: pantaloncini e scarpette. Bikila addirittura, gareggiava scalzo. Nel ciclismo servono più mezzi e più strutture. Sarà solo una questione di tempo. La predisposizione degli atleti africani per le corse di lunga durata si farà presto sentire. Per ovviare alle mancanze strutturali, tra il 2016 e il 2021 era stata creata in Sudafrica una squadra ciclistica strutturata al punto da riuscire ad accedere al World Tour. Accanto agli aspetti competitivi, sotto il marchio Qhubeka, che nella lingua Zulu significa «procedere», era stata avviata una campagna di raccolta di vecchie biciclette da distribuire ai bambini dei quartieri periferici affinché le potessero utilizzare per recarsi a scuola.

Dopo il Mondiale, l’Africa guarda avanti. Non si esclude che presto il Ruanda possa ospitare un Gran Premio di Formula 1. Stefano Domenicali, CEO della Formula One Group, pare intenzionato a considerare molto seriamente il progetto.

Nello sport, molto spesso, «C’est l’argent qui fait la guerre». Ne sa qualcosa il Qatar, che in pochi anni ha avuto l’opportunità di «acquistare» tutti i massimi eventi sportivi del pianeta, a cominciare proprio dai Mondiali di ciclismo del 2016. In Ruanda, nonostante la costante crescita, i mezzi finanziari e strutturali non sono comparabili con quelli del piccolo emirato adagiato sul Golfo Persico. Ma il Mondiale appena concluso a Kigali potrebbe dare nuovi impulsi. Nel 2016, Peter Sagan conquistò la seconda delle sue tre maglie iridate attraversando per chilometri un deserto che teneva fede al suo nome, e alzando le braccia al cielo, a Doha, davanti a una folla sparuta, prevalentemente pagata per essere lì. Lo scenario che si è presentato davanti agli occhi di Tadej Pogacar era decisamente più caldo e stimolante. Si sa, lo spettatore è anche un consumatore, quindi cominciamo a scaldare i motori.