Per Trump gli europei sono zavorra: peso morto, fastidio. E il fatto che la Svizzera non appartenga all’Ue non la mette al riparo da questa visione deprimente del Vecchio Continente. Lo confermano la National Security Strategy dell’Amministrazione Usa e qualche successiva esternazione di Trump. Il documento ci schiaffeggia dalla prima all’ultima riga. A volte a ragione. Non si può negare il declino economico dell’Europa che aveva il 25% del PIL mondiale nel 1990 ed è scesa al 14%. Né la crisi demografica: nel 2023 le nascite sono calate del 5,4% rispetto al 2022 e il tasso di fertilità è sceso a 1,38 figli per donna. Così come è reale, ahinoi, l’eccessiva dipendenza strategica dagli Stati Uniti per questioni di sicurezza.
Altre volte le accuse sono rancorosamente ideologiche. Per Washington, la crisi demografica sarebbe causata dalla perdita delle identità nazionali e dalle porte spalancate agli immigrati (ma l’Ue da anni indurisce le misure di accoglienza!). L’Europa, dicono, potrebbe essere «irriconoscibile entro vent’anni». Dimenticando che negli Usa gli immigrati nati all’estero sono il 15,4%, mentre in Europa il 14%. E che fino a ieri il melting pot era considerato un fattore di successo, non una sciagura. Con buona pace degli immigrati somali, definiti «spazzatura» in una recente riunione di gabinetto alla Casa Bianca (bonjour finesse!).
Trump sostiene che l’Ue e altri organismi transnazionali stiano «minando la libertà politica e la sovranità», con pratiche di censura e repressione dell’opposizione. Curioso, detto da un signore che intenta cause miliardarie contro i media che lo contestano, azzoppa gli aiuti alle accademie inclusive e definisce i giudici federali «pazzi della sinistra radicale». Il documento è irritante, ma non va demonizzato: alcune critiche sono fondate e quelle farlocche servono a riattivare l’orgoglio per quello che siamo, come Europa e come Svizzera. Perché l’Europa resta fra le prime tre economie mondiali, leader in settori chiave come green tech, farmaceutica, cultura e diritti. Ha inventato il welfare e guida la transizione ecologica. Con tutti i suoi limiti, nel buio dei diritti che ci circonda, continua a essere un faro di democrazia e di libertà. Come la Svizzera, che in più è un modello di innovazione, intelligenza diplomatica e convivenza pacifica tra culture diverse. Merce invidiabile, di questi tempi.
Certo, nel frattempo – come scriveva il «Corriere del Ticino» – dobbiamo cercare di «trovare un modus vivendi con i forti»: cioè l’Ue (avversata da destra) e gli Usa (avversati da sinistra). Siamo il pesce piccolo che cerca di non farsi mangiare dall’Europa, che a sua volta cerca di non farsi mangiare dall’America. Oltre metà del commercio estero elvetico dipende dall’Ue e settori chiave come farmaceutica, orologeria e metalli preziosi rappresentano più del 70% dell’export verso gli Usa. Insomma, ci stringono in una morsa, ma non possiamo (o non vogliamo) uscirne. È il destino dei piccoli. E dei nostri politici, snobbati dai potenti, che prestano più volentieri retta ai manager, come è avvenuto a Washington nel summit di Trump con un gruppo di imprenditori elvetici che forse – ma è indelicato dirlo ad alta voce – ha spianato la strada all’attuale accordo sui dazi. Sarà difficile che i prossimi patti doganali con Washington e i Bilaterali III con Bruxelles non si rivelino trattati di più o meno velata sottomissione. Ingoieremo amaro, ma non perderemo la consapevolezza che la vera zavorra del mondo non siamo noi, bensì chi disprezza i valori del bene comune che custodiamo e, ne siamo certi, molti prestissimo invocheranno come il pane per uscire da questo insensato «tutti contro tutti» planetario.