Negli ultimi anni, fiumi d’inchiostro sono stati spesi da commentatori e giornalisti per lamentare l’influenza negativa esercitata dalla cultura dei videogame sui nostri ragazzi, spesso accusati di utilizzare l’artificiosa finzione digitale come vero e proprio sostituto della vita reale. Ma cosa succederebbe se proprio l’esistenza fittizia offerta dai videogiochi divenisse l’unica opportunità di sperimentare l’anelito vitale, facendo dell’universo del gaming un mondo per molti versi più vero del vero?
Questa è l’intrigante premessa del toccante film documentario The Remarkable Life of Ibelin («la straordinaria vita di Ibelin»), grande successo di critica e vincitore in ben due categorie del Sundance Festival; un’opera che ha da poco festeggiato il primo anniversario della sua uscita su Netflix, e a cui molti social network stanno in questi giorni dedicando approfondimenti e reminiscenze, a testimoniare l’innegabile impatto che questo reportage ha avuto sul grande pubblico – anche e soprattutto grazie al fatto di aver offerto una visione alternativa (e ben più positiva) del mondo dei videogame.
Il film, firmato da Benjamin Ree, racconta infatti la breve vita di un gamer in particolare: il norvegese Mats Steen, affetto fin dalla nascita da una malattia degenerativa nota come distrofia muscolare di Duchenne, che, con il passare degli anni, lo condannò a un’immobilità quasi totale, causandone infine la morte ad appena 25 anni d’età. E solo a quel punto la sua famiglia avrebbe scoperto come Mats conducesse una «doppia vita», che, all’insaputa dei genitori, lo vedeva nei panni dell’aitante e affascinante Ibelin, detective privato e membro della comunità di Starlight, con sede ad Azeroth, uno dei mondi creati all’interno del popolare videogame World of Warcraft. Un’identità segreta che, tramite il proprio avatar, ha di fatto concesso a Mats di vivere – attraverso il medium del videogioco e l’interazione in tempo reale con i giocatori che, da ogni dove, si riuniscono all’interno di questo «universo parallelo» – l’equivalente di una vita intera, trascorsa nello spazio di circa 20’000 ore di gioco.
Ecco quindi che la passione per i videogame diviene il pretesto per una riflessione socio-antropologica controversa quanto appassionante: perché, proprio come il celebre Vagabondo delle stelle di Jack London, un essere umano che conduca la sua intera esistenza in una dimensione «altra», slegata dalla realtà terrena, può, di fatto, riuscire a controllare e mutare l’universo intorno a sé, rendendo i contorni tra reale e immaginario sempre più sfumati e sfuggenti. Nel caso di Mats, la sua presenza all’interno della comunità di Starlight ha avuto ripercussioni tutt’altro che virtuali su chi lo circondava – le tante persone (nascoste dietro i rispettivi computer e avatar) che Ibelin ha aiutato, lasciando un’impronta positiva sulle loro vite e permettendo così al ragazzo che lo animava di sperimentare emozioni che, a parere di molti, la malattia non gli avrebbe mai permesso di provare. Quella oltre lo schermo era la dimensione in cui egli aveva scelto di vivere: l’unica che potesse donargli un qualche futuro, e non semplicemente l’attesa di un’inevitabile quanto prematura morte.
Così, la lezione che si può trarre da una storia tanto toccante è molteplice: se, infatti, un semplice avatar può dimostrarci come il concetto di realtà sia infine fortemente soggettivo, allora diventa impossibile stabilire se le esperienze vissute all’interno di una simulazione – innamoramenti, amicizie, più o meno eroici gesti quotidiani – possano definirsi meno tangibili o significative di quelle offerte dalla vita «reale» e dalla dimensione fisica. Anche per questo, si potrebbe dire che sia stato proprio Ibelin a rappresentare la vera, più profonda essenza del giovane Mats: l’unica in grado di trascendere le limitazioni corporee per dare voce al proprio sé più reale. A riprova di come, anche di fronte a difficoltà apparentemente insormontabili, la scintilla vitale – intesa come la volontà di dare un significato più profondo all’esistenza, che vada oltre la semplice necessità di sopravvivere – sia, nonostante tutto, destinata ad avere il sopravvento. Sempre e comunque.