Dalle iscrizioni urartee sulle mura di Van ai monoliti funerari selgiuchidi di Ahlat, passando per i monasteri armeni e le cicatrici del Novecento, l’Anatolia orientale si rivela come un archivio a cielo aperto di memorie stratificate
Una grande nuvola bianca sospesa su un andirivieni di morbidi pianori punteggiati di grandi rettangoli blu, le tende dei pastori che hanno sostituito pelli di montone e cavalli con plastica e pick-up. Poi lentamente un immenso cono di roccia spruzzato di ghiaccio emerge nell’afa mattutina sui lunghi rettilinei di una superstrada di cui spesso fanno le spese cani centrati come birilli da camion mastodontici lanciati a folle velocità .
Il monte Ararat più che un paesaggio è un mantra mentale, un’emozione incancellabile quando la luce radente dell’alba crea un’ombra scura che scivola nella pianura sottostante. Per gli armeni che la possono guardare solo dall’altro lato della frontiera è il «Luogo creato da Dio», la Montagna Sacra, iconico simbolo di un’Armenia perduta, raffigurata insieme all’Arca persino sulla bandiera nazionale. Per i turchi invece è l’Ağrı Dağı, la «Montagna del dolore». Ma per tutti è la Montagna dell’Arca di Noè.
Chiunque, quando se la vede davanti, cerca con gli occhi della fantasia il relitto più famoso della storia che sarebbe ancora lassù, imprigionato in una tomba di ghiaccio: «Il settimo mese l’Arca si fermò, il diciassettesimo giorno del mese, sui monti di Ararat» è scritto nella Genesi, parole che si sono trasformate in un’irresistibile calamita per generazioni di esploratori, cacciatori di tesori, avventurieri e fanatici religiosi, a partire dal re assiro Sennacherib che secondo il Talmud avrebbe trasformato in idolo un legno appartenuto all’Arca.
Archeologia biblica
Da allora tutto quello che la riguarda è avvolto da un’impenetrabile nebbia di storie e leggende, persino il luogo in cui avrebbe toccato terra – che secondo alcune fonti sarebbe in realtà il Monte Judi, più a sud e vicino al confine con la Siria. L’Ararat entrò in scena nel tardo medioevo e la corsa alla ricerca dell’Arca iniziò in realtà solo nel diciannovesimo secolo con la nascita dell’archeologia biblica.
Il primo scalatore registrato fu Friedrich Parrot nel 1829, un tempo in cui per gli abitanti dei villaggi ai piedi della montagna salire sull’Ararat era un atto blasfemo, come arrampicarsi sull’Olimpo per i greci o sul monte Kailash per i tibetani. Nel 1876 lo seguì James Bryce che ritornò con un pezzo di legno lavorato dall’uomo, e ai dubbi sulle sue origini rispose disinvoltamente che «nessun uomo scredita la propria reliquia». Era solo il primo di una folla di aspiranti Indiana Jones, perlopiù appartenenti al filone religioso, scesi dall’Ararat brandendo frammenti di legno che – sottoposti ai controlli di esperti – risultavano molto più recenti.
Ci sono anche le «arche fantasma», sporgenze di basalto che nelle fotografie ricordavano forme e dimensioni dell’Arca, e non manca neppure uno strepitoso Pesce d’Aprile del 1883, quando un giornalista neozelandese riportò la fantomatica notizia che una valanga aveva riportato alla luce l’Arca e un acquirente americano, Barnum, progettava di esporla nel suo famoso circo.
Qualche anno dopo, l’arcidiacono della chiesa caldea John Joseph Nouri affermò di averla ritrovata, rafforzando la sua credibilità con un irresistibile curriculum di Grande Ambasciatore Apostolico di Malabar, India e Persia, Rappresentante del Patriarcato Imperiale di novecento milioni di asiatici e Primo Esploratore Universale ad avere percorso un milione di miglia; certezze minate nel 1894 da un ricovero in un manicomio a San Francisco.
Da allora è cresciuta un’arkeology nutrita da interpretazioni letterali di leggende e sacre scritture, foto misteriosamente scomparse, o evanescenti visioni dell’Arca tra una tempesta di neve e un colpo di vento che per un attimo ha spazzato via le nuvole. Nel ventesimo secolo molti gruppi evangelici conservatori degli Stati Uniti fecero del suo ritrovamento la fideistica testimonianza di un sito archeologico con le prove dell’esistenza di Dio. Un mix di fede, sete di avventura e pseudoscienza trasformato in una versione evangelica del Mostro di Loch Ness in cui razionalità e irrazionalità convivono senza problemi, insieme all’immancabile complottismo che accusa i governi di occultare la verità .
Satanisti, boicottaggi e spionaggio
Nel 1940 la rivista «New Eden» di Los Angeles pubblicò la presunta storia di un aviatore russo che nel 1917, testando un avveniristico aeroplano, aveva scoperto un gigantesco relitto sull’Ararat, ma lo scoppio della Rivoluzione russa aveva bloccato la notizia perché i bolscevichi boicottavano qualsiasi propaganda religiosa. Nel 1948 anche Aaron Smith, decano del Pople’s Bible College del Nord Carolina in cerca della prua dell’Arca, si guadagnò dalla sovietica Pravda l’accusa di «spionaggio per gli imperialisti anglo-britannici».
Quattro anni dopo un armeno nato ai piedi dell’Ararat rivelò sul letto di morte al pastore avventista californiano Harold Williams di avere partecipato da ragazzo a una spedizione «guidata da perfidi scienziati satanisti» che, dopo avere tentato invano di distruggere l’Arca in preda a una furia incontrollabile, lo avevano minacciato di morte perché mantenesse il segreto.
Molte di queste spedizioni assomigliano a spensierate gite per dilettanti su una montagna che da lontano rievoca idilliache stampe giapponesi del monte Fuji ma che vicino alla vetta si frantuma bruscamente in un aspro e pericoloso caos di rocce vulcaniche.
Folgorazioni religiose
Altre scalate invece furono pianificate con una preparazione meticolosa, come quelle guidate all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso da James Irwin, l’ottavo uomo a mettere piede sulla Luna che si dimise dalla NASA dopo una folgorazione religiosa sull’Apollo 15. Tuttavia, anche lui dopo una sequela di fallimenti dovette ammettere che «è più facile camminare sulla Luna». Nonostante tutto, il flusso di aspiranti scopritori non si è mai fermato e uno di loro, l’autoproclamato missionario Donald Mackenzie, è addirittura scomparso nel nulla nel 2010, lasciando come unica traccia i resti della sua tenda.
La leggenda dell’Arca di Noè continua ad attirare scalatori, missionari, fanatici e avventurieri sulle pendici del monte Ararat
Quando l’esploratore inglese James Bryce nel diciannovesimo secolo vide l’Ararat per la prima volta scrisse: «Nessuno che l’abbia mai visto emergere maestosamente sopra le altre vette potrebbe dubitare che la sua vetta abbia infranto tutte le onde». Una visione che ancora oggi attira ogni anno a Doğubeyazıt almeno un centinaio di aspiranti cacciatori dell’Arca, e circa quattromila persone pronte a scalare la montagna, con o senza il permesso delle autorità turche. Sono loro, secondo i residenti, a far girare l’economia dei centomila abitanti, perché «senza scalatori e turisti fallirebbero proprietari di cavalli, ristoranti, hotel e taxisti, e se finalmente arriverà la pace tra curdi e governo potremmo diventare un paradiso per scalatori, un nuovo Kilimanjaro».
Forse è vero, anche se è difficile non immaginare ogni sorta di traffico in una polverosa città di frontiera al confine con l’Iran ufficialmente isolato dalle sanzioni: è indubbio che l’Ararat è un potenziale magnete turistico per una regione tra le più povere della Turchia.
Il Paradiso Segreto
Per adesso a Doğubeyazıt devono accontentarsi dell’İshak Paşa Sarayı, un palazzo da Mille e una notte sospeso su uno spigolo roccioso che domina un paesaggio da veduta orientalista del diciannovesimo secolo. Le sue sale istoriate nei giorni di festa riempiono gli occhi di interi villaggi curdi in gita e di ragazze che si rincorrono nei cortili, rosse in viso come le fodere dei loro cellulari, scattando selfie da mandare alle amiche. Chi invece non si scompone più di tanto è il proprietario della casa da tè appollaiata sopra il complesso, «io questo panorama lo vedo tutti i giorni» sorride sornione mentre aspetta gli inevitabili avventori.
A sud di Doğubeyazıt, un immenso specchio d’acqua salmastra chiuso da un orizzonte di montagne color ocra provoca un dubbio spazio-temporale, siamo ancora in Occidente o già nel cuore dell’Oriente? Forse è proprio il lago Van, il più grande della Turchia, il centro di gravità immobile del Sakli Cennet, il «Paradiso segreto» di questa Anatolia orientale, a siderale distanza dalle atmosfere cosmopolite di Istanbul ma attraversata da lampi di storia in comune con un Occidente che ne ha perso persino il ricordo.
La linea di frattura e Van
Nel cuore di una regione impregnata di quello che probabilmente è il più alto tasso di densità e diversità culturali del mondo, si trova un’eredità storica affollata da Ittiti, Romani, Bizantini, Arabi, Persiani, Ottomani, Armeni, Georgiani e Russi. Affaccendati per secoli in guerre infinite per occupare quella che ancora oggi per politologi e diplomatici è una Fault Line per eccellenza, una linea di frattura geografica e simbolica tra Europa e Asia.
Un confine invisibile, ma concreto e reale, che potrebbe annidarsi tra le spirali di pietra di una vera e propria cipolla archeologica, la cittadella di Van iniziata dai sovrani urartei nel nono secolo avanti Cristo e trasformata dalle più sfrenate fantasie dei pittori del XVIII secolo in un’onirica colonna a picco sul lago. Nonostante il terremoto del 2011, ultimo di una lunga serie, la «Perla dell’est» è una delle città più dinamiche dell’Anatolia orientale, con un traffico da videogioco in cui al posto dei mostri ti schizzano davanti donne velate e ciclisti bambini.
«Van in questo mondo, il paradiso nel prossimo» diceva un proverbio armeno: purtroppo per molti di loro il paradiso è arrivato troppo presto con la prima pulizia etnica del ventesimo secolo. Centinaia di migliaia di morti, cui i turchi da sempre oppongono le loro vittime, negando il genocidio. Una faida infinita che qui nessuno ama rievocare, meno che mai gli assonnati camerieri intenti a smontare pile di sedie per affrontare i primi clienti del mattino. Meglio, molto meglio, rievocare ai pochi turisti di passaggio il raro Gatto di Van, famoso per i suoi occhi di colore diverso e la capacità di pescare nuotando.
Çavuştepe e il castello di Hosap
Il vero gioiello però è una collina sospesa a sud est del lago su un paesaggio verde acceso punteggiato di villaggi, Çavuştepe con la sua grande pietra di basalto nero ricoperta da iscrizioni cuneiformi annidata tra le scarne rovine del palazzo-fortezza costruito tra il 764 e il 735 a.C. dal re urarteo Sardur II, sovrano di un regno esteso dal mar Caspio alla Mesopotamia. Un frammento della storia più antica della regione per gli archeologi, e una fonte di reddito per lo storico guardiano del sito, l’ultraottantenne Mustafa Keman che ha creato dal nulla un geniale marketing turistico, imparando a scolpire caratteri e simboli urartei su piccole stele di pietra trasformate in insoliti souvenirs. Per decenni Urartu Mehmet, come lo chiamano i compaesani, ha osservato gli archeologi che interpretavano i caratteri cuneiformi diventando, almeno secondo lui, una delle dodici persone al mondo che sanno scrivere e leggere in urartico.
Ancora più a sud il castello di Hosap, un nido d’aquila appeso a una collina, sembra sul punto di precipitare sulla lunga fila di botteghe di gommisti e meccanici del villaggio di Guzelsu, in trepida attesa di un probabile guasto meccanico proveniente dallo scarso traffico diretto verso il vicino Iraq.
Le leggenda dell’Isola Akdamar
Il passato armeno del lago Van riaffiora sull’isoletta di Akdamar, di fronte a un molo dove un barcone pomposamente ribattezzato traghetto salpa a insindacabile giudizio del capitano solo quando è pieno, o più spesso quando i turisti sfiniti dall’attesa accettano di pagare un sovrapprezzo per essere trasportati all’isola. Direttamente nel decimo secolo, davanti ai miti biblici che si rincorrono sulle mura ricoperte di bassorilievi della basilica della Santa Croce, capolavoro assoluto dell’architettura armena e simbolo di un passato tornato all’antico splendore dopo decenni di abbandono.
Anche il nome tradizionale dell’isola, Akhtamar, risalirebbe a una leggenda armena sull’amore della principessa Tamar che ogni notte accendeva una luce per guidare un ragazzo che la raggiungeva a nuoto. Fino a quando il padre, scoperta la tresca, spense la luce lasciando annegare il ragazzo che gridava «Akh, Tamar», «Oh, Tamar», un urlo disperato che risuonerebbe ancora nel buio.
Il vulcano più giovane dell’Anatolia
Il fascino asiatico del paesaggio invece esplode all’interno del cono spezzato del Nemrut Dagi, un’ellisse lunga otto chilometri che nasconde un lago profondo più azzurro del cielo, è il vulcano più giovane dell’Anatolia da non confondere con l’omonima montagna nel sud-est della Turchia. Ai suoi piedi emergono dall’erba bruciata dal sole gli ottomila monoliti rossastri alti più di quattro metri e ricoperti di incisioni cufiche, la raffinata calligrafia araba, del cimitero selgiuchide di Ahlat, probabilmente il più grande del mondo e in attesa di essere nominato Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO.
Quasi una visione, come l’Arca di Noè vagamente rococò e pericolosamente inclinata su un lato che naviga su un improbabile tappetino alle spalle dell’impiegato alla reception di un albergo di Agri. Ultimo flash di contraddizioni sospese tra un passato mitico e una modernità sanguigna, in un continuo gioco di specchi tra ricordi biblici, un remoto medioevo cristiano e testimonianze di un Islam austero.









