Israele-Palestina: nessun futuro condiviso potrà costruirsi senza delle solide fondamenta basate sulla conoscenza dell’altro e sul riconoscimento dei reciproci traumi. I media mainstream giocano un ruolo fondamentale
Dopo due anni di tensioni, paura e conflitti interni, dal momento dell’annuncio del siglato accordo gli israeliani hanno conosciuto ore di pura gioia e speranza, mentre l’attesa dei 20 connazionali sopravvissuti alla prigionia ha ricompattato la società ebraica che ha condiviso le stesse emozioni a prescindere dalle opinioni politiche. Sin dalla sera precedente decine di migliaia di israeliani si sono radunate nella Piazza degli ostaggi per trascorrervi la notte in attesa di assistere sui maxi schermi al rilascio previsto per le prime ore del mattino. I primi sette ostaggi sono stati consegnati alla Croce Rossa a Gaza City, nel nord della Striscia, intorno alle 8 del mattino. Si tratta di Matan Angrest, Alon Ohel, Omri Miran, Eitan Mor, Guy Gilboa-Dallal e i gemelli Gali e Ziv Berman. I successivi 13 – Elkana Bohbot, Avinatan Or, Yosef-Haim Ohana, Evyatar David, Rom Braslavski, Segev Kalfon, Nimrod Cohen, Maxim Herkin, Eitan Horn, Matan Zangauker, Bar Kupershtein e i fratelli David e Ariel Cunio – sono stati consegnati alla Croce Rossa a Khan Younis, nel sud della Striscia, poco prima delle 11.
Il protocollo prevedeva che venissero trasferiti alle forze israeliane all’interno di Gaza e successivamente condotti al centro di frontiera di Re’im, da dove sono stati trasportati in elicottero negli ospedali del centro di Israele, dove vengono ora sottoposti a valutazioni, cure e riabilitazione. Nel corso di tutta la mattinata, mentre i media trasmettevano ininterrottamente le immagini delle famiglie euforiche e in lacrime che si riunivano ai loro cari, la folla riversatasi lungo le strade di tutto Israele applaudiva sventolando bandiere, cantando e ballando.
La sacralità della vita umana
La tregua è cosa buona perché tutela almeno temporaneamente la sacralità della vita umana e concede l’ossigeno necessario per uscire dalla modalità di sopravvivenza. Da quando Trump ha proclamato la fine delle operazioni militari il sollievo del sistema nervoso è palpabile già al risveglio e, anche solo per questa leggerezza ritrovata – difficile forse da comprendere per chi ha vissuto la guerra da lontano – c’è senz’altro da ringraziare il presidente americano e la sua discutibile, imbarazzante autorità. I manifestanti e i parenti degli ostaggi lo hanno ringraziato sin troppo. Troppo perché, così come ha repentinamente scatenato l’euforia in un Paese traumatizzato, così ha anche riportato la Nazione, o almeno la parte razionale della medesima, con i piedi per terra, per non dire nella palude. Lo ha fatto con un’esibizione di oltre un’ora trasmessa in mondovisione dalla Knesset, il Parlamento israeliano, dove si è recato a ricevere gli onori non appena atterrato. L’oratoria di Trump richiede allo spettatore onesto un’operazione da equilibrista: rinunciare alla verità storica che è sotto gli occhi di tutti, sotto il ricatto di una pace ingiusta che, tuttavia, detiene l’oggettivo potenziale di preservare molte vite umane. Ad accoglierlo in pompa magna c’era, oltre ai suoi parenti e collaboratori, tutto l’establishment sionista, grato per essere stato salvato in extremis dal criminale vicolo cieco dove si è incastrato.
In uno scenario geopolitico costellato da simili attori tanto influenti, quanto indigesti per le modalità al limite della legalità e l’imprevedibilità, non resta che attrezzarsi ingoiando rospi e individuando i campi di azione trascurati o peggio lesi dalla prepotenza, dalla menzogna e dalla superficialità che regnano sovrane. Nel caso di Israele-Palestina, nessun futuro condiviso potrà costruirsi senza delle solide fondamenta basate sulla conoscenza dell’altro e sul riconoscimento dei reciproci traumi. Mentre Trump lavora con i suoi partner per ridisegnare il Medio Oriente a modo suo, l’onestà della leadership locale e internazionale si misurerà dunque sull’approccio alle questioni della memoria, dell’empatia, del passato coloniale, dell’antisemitismo, della pace e della giustizia storica, oggi ancora arenate su posizioni stagnanti e autoreferenziali. Si richiede di introdurre un’etica fondata sulla parità, sulla legittimità reciproca, sull’uguaglianza e il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione nazionale tanto per gli ebrei israeliani che per gli arabi palestinesi. Rinunciamo quindi alla seduzione del narcisismo ideologico e approfittiamo di questa tregua per promuovere un processo etico di smantellamento di tutte le forme di supremazia, controllo e dominio a favore di un processo di decolonizzazione che sfoci in un contesto paritario in cui gli israeliani potranno recuperare la loro legittimità agli occhi dei palestinesi e del mondo.
Arruolati alla propaganda
Una parte importante della riabilitazione andrà dedicata ai media mainstream di Tel Aviv i quali, arruolati alla propaganda, in questi due anni si sono resi complici di indifferenza, rimozione e contraddizioni. Silenziando la critica e omettendo di riportare quanto avviene a Gaza, i commentatori dei principali canali televisivi 11,12 e 13 hanno plasmato le coscienze degli israeliani relegandoli ad una dimensione passiva di lutto che impedisce loro di confrontarsi con le accuse di genocidio. Nel suo libro The New Censorship: How the War on the Media is Taking Us Down, uscito questo settembre per la casa editrice inglese Footnote, la ricercatrice e giornalista israeliana Ayala Panievsky ha condiviso i risultati dei propri studi sulla copertura della guerra. «Le persone che si ritengono giornalisti seri hanno accettato e pompato per due anni la percezione che non ci siano innocenti a Gaza, che tutti i palestinesi siano uguali», ha affermato Panievsky dopo aver passato in rassegna da Londra i notiziari israeliani dal 7 ottobre. La sua analisi dimostra come la destra populista abbia usato tecniche come bot, campagne diffamatorie e disinformazione per dominare la conversazione sui media. Invece di vietare le storie, diffondono disinformazione. Invece di tacere, gridano più forte. La censura a mano pesante non è necessaria quando le persone possono essere manipolate e silenziate con modalità «socialmente più accettabili». In un periodo di decadimento democratico, in cui la tecnologia viene utilizzata per diffondere informazioni e incitare alla violenza, reintrodurre e incentivare un giornalismo di qualità è più urgente che mai.
