La vera prova per Ankara sarà Israele, l’antico compagno di viaggio trasformatosi in nemico assoluto
Nella rivoluzione geopolitica mondiale c’è un nuovo protagonista: la Turchia. Fino a ieri trattata dagli occidentali da media potenza. Non troppo affidabile per gli alleati atlantici. Anzitutto per il carattere del regime, spurio agli occhi degli europei, con Mario Draghi che tre anni fa bollava il carismatico e accentratore presidente Recep Tayyip Erdogan come «dittatore». E i frequenti colpi di Stato che a cavallo dei due millenni segnalavano l’indisponibilità della classe militare, autoproclamata custode del laicismo intitolato al padre fondatore Kemal Atatürk, a permettere derive islamiste. Per tacere della tendenza di fare di testa propria, in aperto conflitto con l’«alleato» greco, cui da sempre si contrappone nell’Egeo. Soprattutto nella questione di Cipro, di cui Ankara controlla pienamente la Repubblica settentrionale, non riconosciuta dal resto del mondo, separata dalla porzione greca. C’è chi pronostica entro massimo dieci anni una guerra turco-israeliana con epicentro Cipro, chiave del Mediterraneo orientale.
Oggi Erdogan che dal mondo islamista sunnita proviene – per la precisione dalla galassia dei Fratelli musulmani, la stessa di Hamas – è l’affermato centro del sistema, aspramente criticato dalle opposizioni, con quasi metà del Paese che non lo vota, ma di cui pochi contestano l’autorità . Né sul piano internazionale qualcuno nega la centralità che la Turchia ha acquistato nel suo vasto spazio di elezione, esaltato dal proverbiale patriottismo turco, con risvolti persino fanatici. La Turchia sta riscoprendo le sue radici imperiali. Ottomane. L’impero distrutto nella Prima guerra mondiale resta riferimento identitario per Ankara. Non perché intenda ricostituirlo – impossibile. Ma perché traccia il nucleo essenziale della Repubblica attuale, costretta nella penisola anatolica dagli «iniqui» trattati seguiti alla Grande guerra, mai digeriti dal popolo e dalle élite locali. Non solo Anatolia e dintorni, ma Balcani musulmani o meno, Levante, Nordafrica. Da cui Ankara punta verso il Corno d’Africa, piantando tenda a Mogadiscio, financo nell’Africa occidentale ex francese. Sul fronte asiatico orientale la rinascente potenza turca recupera le sue fondazioni in area sino-mongola. Con epicentro nel Xinjiang, strategica regione autonoma della Repubblica popolare, collocata alla periferia nord-occidentale dell’impero di Pechino. E dal regime comunista tenuta sotto stretta sorveglianza per le tentazioni separatiste tuttora vive in parte della popolazione autoctona: gli uiguri, di religione e cultura musulmana, e di lingua turchesca. Vista dall’Anatolia si chiama infatti Turkestan Orientale, con tanto di pseudo Governo in esilio (turco, s’intende). Per tacere dell’Asia centrale postsovietica, dove i turchi sono secondi solo ai cinesi nella penetrazione del cortile di casa russo.
A proposito: la guerra di Ucraina ha offerto alla Turchia l’occasione di far valere il suo privilegio di padrona degli Stretti che ostacolano le velleità mediterranee della Russia. Allo stesso tempo ne ha elevato il ruolo di mediatrice fidabile, ad esempio nei negoziati russo-ucraini che nel marzo-aprile 2022 sembravano destinati a por fine alla guerra. Erdogan cura personalmente la crescita delle sue Forze armate, temprate nella repressione delle rivolte curde, riconosciute in ambito Nato come assai battagliere. Più efficaci di qualsiasi esercito europeo. I droni turchi, poi, commerciati in tutto il mondo, sono ormai leggendari. Essere in vetta alla classifica nello sviluppo dell’arma del momento, che ha rovesciato i princìpi dell’arte bellica decretando la superiorità del mezzo più economico su quello più costoso – un drone Baykar Bayraktar Tb 2, estremamente affidabile, costa una frazione di un missile deputato a funzioni analoghe – segna il salto di qualità del marchio Türkiye, internazionalmente imposto da Ankara come proprio nome ufficiale. Un drone, un logo, un capo: trittico che da solo giustifica le ambizioni – le manie – di grandezza del presidente dalla personalità dominante. Uno di quegli uomini, come amava dire Henry Kissinger, che quando entrano in una stanza l’inclinano verso di lui.
Sarebbe errato però identificare la Turchia con Erdogan. Lui ne è figlio almeno quanto se ne rappresenta padre. Il suo imperialismo che attinge alla fede islamica e venera i grandi sultani del passato affascina il suo popolo, compresi molti di coloro che non ne apprezzano le tendenze politico-ideologiche. Dove può inciampare il colosso turco in versione moderna? Molti ricorderanno l’economia, in particolare l’iperinflazione che da tempo taglia salari e stipendi. Importante, ma non decisiva. No, la vera prova per Ankara, almeno per i prossimi anni, sarà Israele. Suo antico compagno di viaggio, da socio occulto insieme all’Iran nei primi decenni del dopoguerra. Con l’avvento di Khomeini il filo che legava Persia e Stato ebraico si è spezzato. Mentre la questione palestinese è stata la pietra di inciampo che ha rovesciato da amichevole a tempestoso il rapporto con Gerusalemme. Oggi Erdogan paragona Netanyahu a Hitler. E da Israele il suo espansionismo è trattato quale minaccia strategica di taglio islamista. Ora che l’Iran è in crisi, la Turchia ne sta prendendo il posto di anatema assoluto per lo Stato ebraico. C’è chi pronostica entro massimo dieci anni una guerra turco-israeliana con epicentro Cipro, chiave del Mediterraneo orientale ricco di risorse energetiche e di memorie non condivise. Per ora turchi e israeliani si scrutano attorno a Damasco, conquistata da jihadisti ripuliti dalla Turchia e da alcune potenze occidentali, e avvicinata dalle avanguardie di Tsahal discese dal Golan. La guerra con Hamas può essere per Tel Aviv l’antipasto in vista del risolutivo duello con Ankara. Sempre che lo Stato ebraico non soccomba prima alla vena suicidaria che sembra marcarne la terrificante replica al massacro del 7 ottobre.
 
			         
			         
			        