L’ultima volta che l’ho vista, in lontananza, la torre il cui nome similgaddiano deriva da un cinquecentesco governatore spagnolo del Ducato di Milano al quale hanno dedicato una via che non c’è più e una piazza che c’è ancora, veleggiava come un miraggio. Ma soprattutto laggiù, quasi come in un diorama emerso dalla nebbiolina, vista dalla torre della Fondazione Prada, con le lucine in cima stile torre aeroportuale, tra le gru di un ex terreno vago, ho capito che dialogava, lì vicino, con le guglie-fatamorgana del Duomo.
L’intonazione alle «preesistenze ambientali» teorizzate da Ernesto Nathan Rogers, era forse dunque lì da vedere, in quel panorama indistinto l’inverno scorso. Verso il tramonto di una splendida giornata di fine settembre invece, cercherò di studiare come meglio posso, da più ravvicinati scorci, l’ardito e controverso edificio a torre per uffici, abitazioni, negozi, progettato negli anni cinquanta dai BBPR. Acronimo di un gruppo di architetti più o meno coetanei composto da Gian Luigi Banfi (1910-1945), Lodovico Barbiano di Belgiojoso (1909-2004), Enrico Peressutti (1908-1976), Ernesto Nathan Rogers (1909-1969): già tirato in ballo prima e per anni direttore di «Casabella».
È in uno squarcio di città distrutto dai bombardamenti alleati che sorge, nel 1958, la torre Velasca. E nello scorcio prescelto, all’angolo di piazza Missori con Corso di Porta Romana, alzando lo sguardo, di colpo, alle 18:07 contro un cielo ancora azzurro e che più azzurro di così si muore, il grattacielo all’epoca più discusso d’Europa, «ci appare – così si espresse l’architetto-urbanista Giuseppe Samonà – come l’esplosione di un magma». Il punto di svolta è lo sbalzo post-neogotico per passare, con stupore assoluto, dal diciottesimo al diciannovesimo piano. È lì, con quell’innesto diagonale di pilastri e tiranti che avviene la trasformazione in moderna torre medievale. Corrispondenze forti ci sono con la torre del Filarete al Castello Sforzesco, il cui museo, tra l’altro, è stato proprio allestito con estrema innovazione dai BBPR nel 1956. Il rosa della graniglia di marmo veronese, mischiato al cemento, per l’intonaco poi, è il colpo di classe che la rende, con questa luce autunnale onesta e sognante ancora di più, irreale.
Eppure eccomi qui, nella piazza che porta il nome, declinato al femminile, di Juan Fernandez de Velasco (1550-1613), sotto la torre «neo-art-nouveau» – come la definì il critico d’arte Nikolaus Pevsner – che si erge per novantanove metri. Rigenerata di fresco da un restauro sopraffino, va detto, a opera di Asti Architetti. Nella piazza ora ci sono nuove panchine di legno, alberi, lampioni originali tornati all’antico rigore e una pace insperata. Sushisamba: il nome-crasi di un ristorante che verrà, nell’avancorpo di «sapore vagamente brasiliano», scrivono, prefigurandone il destino, Bonfanti e Porta in Città, museo e architettura (1973): un po’ la bibbia dei BBPR dove la Velasca è «magnifica presenza». Le uscite del metrò Missori anni novanta, noto con sorpresa, sono diverse qui: marmo rosa intonato alla torre che negli intenti dei BBPR doveva riassumere l’atmosfera sfuggente della città. Sbircio il dettaglio del marmo di Baveno nella hall e poi via, ritorno al punto di vista privilegiato di piazza Missori. Per vedere la torre Velasca che «mi ricorda qualche cosa, costruzioni che ho già visto ma che non mi ricordo più». Scrive Enrico Filippini, intellettuale di Cevio trapiantato qui a Milano, in un racconto-saggio (1963).
Appoggiato al corrimano del palazzo di Piacentini, tre gradini sopra il viavai di gente una domenica di sole, ora (18:50) lo scorcio è ideale, con il rosa accresciuto dalla luce dolce e malinconica verso il tramonto. Un flash: assonanza, dissepolta in un baleno, delle falconature angolari sul tetto del Duomo e l’angolatura dei costoloni che portano al corpo superiore della Velasca con più spazio per gli appartamenti. In uno di questi viveva la cinica milanesissima Elvira (Franca Valeri) con suo marito buonoanulla-fanfarone (Alberto Sordi) che trama un piano, con l’ascensore e due complici non sveglissimi, per farla fuori ed ereditare una fortuna. Ma la torre-cruciverba, come la immagina Pino Zac per via delle sue «spettinature» come le chiama l’autorevole Portoghesi, nel film Il vedovo (1959) di Dino Risi, è protagonista, sullo sfondo, in primo piano, fin dai titoli di testa.
 
			         
			         
			        