Il diritto di dire la propria, anche in modo violento e razzista, è diventato un tema facile, che non riguarda solo gli elettori di destra
Nigel Farage è bravo ad aizzare insofferenze, a inventare nuovi bisogni per l’elettorato: uscire dall’Unione europea, convincersi di aver bisogno di libertà di parola, far sentire i britannici come se abitassero in Corea del Nord. Funziona benissimo, tanto più ora che il vento internazionale soffia a favore, per l’artefice della Brexit al 35% nei sondaggi, e che il tema del freedom of speech ha un martire di rilievo come Charlie Kirk, tragicamente ucciso negli Stati Uniti il 10 settembre scorso. Pochi giorni dopo, il 13, hanno fatto il giro del mondo le immagini di Londra invasa da 150mila persone scese in piazza per una enorme, inquietante manifestazione indetta da Tommy Robinson, agitatore politico di estrema destra, uno che fa risse e trascorre molto tempo in carcere. Il motivo più nobile della manifestazione molto britannica – ci sono stati disordini, attacchi alla polizia, una decina di agenti feriti gravemente, sembravano i tempi degli hooligans – era difendere la libertà di parola, messa a repentaglio, agli occhi di molti, dall’attenzione sproporzionata che la polizia sta dando alle opinioni controverse espresse sui social, facendo del Regno Unito un luogo «vicino alle dittature del terzo mondo», secondo un articolo molto ideologico di «Forbes».
Le causes célèbres sono tante, e la più celebre di tutte è quella di Lucy Connolly, madre e babysitter di 41 anni che, dopo l’uccisione di tre bambine a Southport per mano di un diciassettenne figlio di immigrati ruandesi, ha twittato ai suoi pochissimi followers un invito, molto valorizzato dall’algoritmo e cancellato quattro ore dopo, a dar fuoco a tutti gli alberghi dove vivono «questi bastardi». La donna, che si è pentita, si è scusata e ha una bambina ancora piccola, è stata condannata a 31 mesi di carcere, e se non c’è dubbio che il suo sia stato un incitamento all’odio in piena regola, è altrettanto chiaro quanto una pena così sproporzionata non rappresenti un deterrente ma un precedente pericoloso, di quelli capaci di infiammare gli animi. L’attore e sceneggiatore irlandese Graham Linehan, autore di Padre Ted e da sempre molto critico verso i movimenti sui diritti dei trans, è stato arrestato a Heathrow per aver detto che se una donna incontra una trans nel bagno deve sferrargli un calcio in mezzo alle gambe. Poi, su scala minore ma ancora più simbolica, c’è il caso della tredicenne che, nella «giornata delle culture» a scuola si è presentata vestita con la bandiera britannica fatta di paillettes – come un tempo le Spice Girls, senza che la cosa fosse un problema – ed è stata messa in isolamento ad aspettare che qualcuno la venisse a riprendere, visto che il suo costume era stato giudicato «inaccettabile» dalle autorità scolastiche, che poi hanno riconosciuto l’errore. Alla marcia «Unite the Kingdom» la ragazzina, che si chiama Courtney Wright, ha parlato, spiegando che «a volte a scuola senti solo parlare di altre culture, e ti sembra che essere britannica non conti come cultura, solo perché siamo una maggioranza», ma che lei è fiera di avere quella, come cultura, e tutti dovrebbero poterlo essere. I 150mila della marcia erano con lei, in modo più o meno sentimentale, mentre Elon Musk in collegamento chiedeva di rovesciare il Governo laburista, «di combattere» o «morire», annunciando che «sta arrivando la violenza». Esortazioni che vanno contestualizzate, secondo Nigel Farage, ma che hanno senso se servono a tutelare «i nostri diritti e la libertà di parola», diventata a sorpresa quello che la lotta contro i perfidi eurocrati era dieci anni fa durante la campagna referendaria.
Uno slittamento tematico che sorprende meno, se si pensa a chi siano i primi beneficiari di una totale assenza di regole sulla libertà di espressione, ossia i Big Tech, la Silicon Valley, tutti i miliardari che si sono inginocchiati alla corte di Donald Trump e che vedono come fumo negli occhi qualunque tentativo di moderare i toni sui social network, controllarne i contenuti, regolarne le attività per evitare abusi. Da una parte le regole britanniche sui crimini di espressione online sono troppo stringenti e lo stesso capo di Scotland Yard, Mark Rowley, ha parlato della necessità di «trovare un equilibrio tra la libertà di parola e il rischio di incitare alla violenza nel mondo reale», per evitare che le risorse della polizia se ne vadano tutte a inseguire minacce online perdendo di vista quello che succede nelle strade. Non è l’unico a pensarlo, i casi di Connelly&Co sono problematici e non fanno che irritare una working class, che tra postumi del Covid e inflazione non si sente capita, è spaventata dagli immigrati che arrivano dalla Manica e riempiono alberghi che un tempo erano magari luoghi amati, ma è ancora più spaventata da chi trova nel Regno Unito opportunità a lei precluse. E quindi il diritto di dire la propria, anche se in modo violento e razzista, è diventato un tema facile, che non riguarda solo gli elettori di destra: il 38% dei britannici ritiene di non poter dire quello che vuole, anche per l’autocensura seguita a decenni di politicamente corretto. Davanti al Congresso americano, Farage ha detto che lo «Uk Online Safety Act», che Big Tech vede come fumo negli occhi, rischia di danneggiare il commercio e di minacciare «la libertà d’espressione in tutto l’Occidente per un effetto a catena». Non è vero, serve a proteggere contro gli eccessi – pedofilia, istigazioni al suicidio – ma la salvaguardia della democrazia britannica passa anche attraverso la comprensione delle sue inquietudini, o il referendum sulla Brexit non avrà insegnato niente. Â
 
			         
			         
			        