Diversi Paesi hanno riconosciuto lo Stato di Palestina, un importante passo che però da solo non basta. Le reazioni interne ad Israele e le strade che restano da tentare per la pace
«I palestinesi non sono un popolo di troppo», ha affermato la settimana scorsa Emmanuel Macron, nel suo discorso tenuto in occasione del riconoscimento ufficiale di uno Stato di Palestina. Il presidente francese ha cambiato toni verso Israele nel 2024 di fronte all’impermeabilità di Netanyahu a qualunque colloquio diplomatico e ha dato l’impulso, insieme all’Arabia Saudita, al riconoscimento che ha visto in prima linea Gran Bretagna, Australia, Canada e Portogallo seguiti da Francia, Principato di Monaco, Malta e Lussemburgo. L’iniziativa si basa sulla cosiddetta «Dichiarazione di New York», un piano dettagliato in 42 punti in base a cui Hamas dovrebbe abbandonare la striscia e consegnare gli ostaggi. Sale dunque a 145 il numero di Paesi membri delle Nazioni Unite che riconoscono lo Stato palestinese, ma, finché Trump e Rubio appoggiano Netanyahu, gli Stati Uniti apporranno il veto.
L’arena dello Stato ebraico – sempre più isolato e impopolare a livello internazionale a causa della violenza e sconsideratezza del Governo Netanyahu che persiste nel rifiutare di porre fine alla guerra promuovendo politiche di occupazione e annessione – non ha tardato a reagire a tali iniziative unilaterali rilasciando dichiarazioni che rispecchiano i diversi orientamenti. Tendenzialmente tanto la coalizione governativa quanto l’opposizione hanno attaccato duramente la decisione di riconoscere uno Stato palestinese. Cominciando dalla destra nazionalista, il Ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, ha affermato che la dichiarazione di Canada, Gran Bretagna e Australia richiede «contromisure immediate». Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich si è unito all’appello di Ben-Gvir con un post sulla rete X: «I giorni in cui la Gran Bretagna e altri Paesi determineranno il nostro futuro sono finiti. L’unica risposta alla decisione anti-israeliana è la sovranità sulla patria del popolo ebraico in Giudea e Samaria e l’eliminazione definitiva dall’agenda politica dell’idea folle di uno Stato palestinese». Il ministro della Cultura e dello Sport, Miki Zohar, ha liquidato il riconoscimento di uno Stato palestinese da parte di Canada, Australia e Gran Bretagna come «un’affermazione priva di significato, che puzza di antisemitismo e odio verso Israele».
Neppure i sionisti liberali all’opposizione hanno accolto le dichiarazioni in modo favorevole, attribuendone la responsabilità allo stesso Governo israeliano. Il leader dell’opposizione Yair Lapid ha definito il riconoscimento di uno Stato palestinese «un disastro politico, un passo falso e una ricompensa per il terrorismo» puntando il dito contro il Governo che «dopo aver portato il più terribile disastro di sicurezza della nostra storia ora ci sta portando anche la più grave crisi politica di sempre». Anche secondo il presidente del Partito democratico, Yair Golan, il riconoscimento unilaterale di uno Stato palestinese sarebbe «un grave fallimento politico da parte di Netanyahu e Smotrich, una mossa distruttiva per la sicurezza di Israele». Secondo lui, «lo Stato di Israele ha bisogno di un solido punto d’appoggio politico che ponga fine alla guerra, liberi gli ostaggi e garantisca la sicurezza per le generazioni future», mentre «la questione di uno Stato palestinese smilitarizzato può e deve essere parte di un ampio accordo regionale guidato da Israele che garantisca interessi di sicurezza». Il leader di Blu e Bianco, Benny Gantz, ha affermato che «riconoscere uno Stato palestinese dopo il 7 ottobre rafforza Hamas e l’intero asse iraniano, prolunga la guerra e riduce le possibilità di restituzione degli ostaggi». A sua volta il Forum delle famiglie degli ostaggi ha condannato il sostegno incondizionato di vari Paesi alla creazione di uno Stato palestinese, definendolo «un’eclissi politica, morale e spirituale» che ignora palesemente i 48 ostaggi tenuti prigionieri da Hamas e i crimini del massacro del 7 ottobre.
Per incontrare una ricezione favorevole bisogna spostarsi più a sinistra dove Zehava Galon, ex leader del partito Meretz, ha incoraggiato gli israeliani a prendere la mano che il mondo porge loro affermando che «uno Stato palestinese è l’unica soluzione realistica esistente in cui possiamo vivere, riprenderci, costruire, guarire e lottare per la libertà e la pace». Anche da Hadash, la lista mista, si levano voci di sostengano all’iniziativa diplomatica internazionale per il riconoscimento della Palestina. Una è quella dell’avvocata Noa Levy, vicepresidente, che rivolgendosi ai sostenitori dello Stato unico, perplessi dall’iniziativa, ha commentato: «I due popoli vivono insieme in un unico Stato, ma si tratta di uno Stato di apartheid e pulizia etnica, e ora anche di genocidio. I palestinesi meritano la possibilità di fondare il proprio Stato, di commettere errori e guidare i propri piani, e di non essere subordinati ai progressi nella democratizzazione della maggioranza in Israele». In una conferenza stampa a Gerusalemme tenutasi di recente, la coalizione Peace Partnership ha interpretato il riconoscimento internazionale come un passo positivo, sottolineando tuttavia l’urgenza di passare da semplici dichiarazioni a misure concrete quali la fine della guerra di annientamento a Gaza e il progresso verso una soluzione politica.
Ricordiamo che la Peace Partnership, Shutfut Hashalom, è una coalizione dal basso che comprende oltre 60 organizzazioni, movimenti e attivisti ebrei e palestinesi che dal dicembre 2023 lavorano insieme per porre fine alla guerra, all’occupazione e alla discriminazione sistemica. I rappresentanti hanno quindi chiesto alla comunità internazionale di intervenire per porre fine all’annessione e all’apartheid in Cisgiordania e alla persecuzione politica dei palestinesi in Israele e nei territori occupati. Secondo alcuni opinionisti più scettici, come Alaa Salama e Gideon Levy, il rischio è tuttavia che la spinta a riconoscere uno Stato palestinese crei l’illusione di un’azione concreta che mette a tacere le proteste, ritardando rimedi concreti come le sanzioni. Non è facile stabilire quale sia l’iniziativa giusta per porre fine allo spargimento di sangue e garantire un livello di pace, prosperità e uguaglianza per entrambi i popoli, rispondendo contemporaneamente alle legittime aspirazioni del popolo palestinese all’autodeterminazione. Sembra comunque fondamentale che la comunità internazionale eserciti una pressione determinata e costante, a supporto della partnership israelo-palestinese che da dentro cerca di contrastare il Governo e indebolire la legittimità dell’impresa degli insediamenti e della pulizia etnica chiedendo il ritiro dell’esercito.
 
			         
			         
			        