Nepal, futuro cercasi

by azione azione
22 Settembre 2025

La rivolta dei giovani e il ruolo di India, Cina e Stati Uniti

Si chiama Sushila Karki, ha 73 anni, è stata fino all’altro ieri presidente della Corte Suprema e adesso è entrata di diritto nella storia del Nepal. Ha infatti giurato come prima ministra ad interim, diventando la prima donna a guidare la povera Nazione himalayana: un traguardo che in tempi normali sarebbe stato celebrato come una tappa fondamentale del percorso democratico del Paese ma che è invece stato offuscato dalle circostanze della nomina della leader. Avvenuta dopo giorni di sanguinosa rivolta che hanno costretto l’ex primo ministro Sharma Oli alle dimissioni, la rivolta, in cui hanno perso la vita decine e decine di persone, e che ha lasciato sul campo centinaia di feriti, faceva seguito a una protesta di massa scatenata dalla decisione del Governo di vietare Facebook, X, YouTube, Instagram e tutte le altre principali piattaforme social. Il divieto, pensato per soffocare il dissenso, ha avuto l’effetto opposto: ha incendiato le piazze e portato per le strade migliaia di giovani.

La cosiddetta Generazione Z, che guarda il mondo attraverso lo schermo dei cellulari mentre è costretta a vivere in un Paese dominato da una classe politica in media ottuagenaria, in un clima di corruzione, censura e clientelismo. La protesta è rapidamente degenerata. Manifestanti che assaltavano il Parlamento, edifici governativi dati alle fiamme, case di politici devastate. Il Governo ha usato il pugno di ferro: coprifuoco nazionale, l’esercito inviato nelle strade, carri armati a presidiare i quartieri della capitale. Kathmandu, illuminata a giorno dalle fiamme, è diventata un campo di battaglia, mentre i feriti si contavano a decine e poi a centinaia. Il quadro oggi è quello di una città in stato d’assedio. L’esercito ha istituito posti di blocco ovunque, decine di persone sono state arrestate per saccheggi, centinaia di armi sequestrate. Ma tra le macerie c’è anche chi reagisce in altro modo: e si vedono nella capitale schiere di ragazzi con mascherine e guanti, sacchi della spazzatura in mano, che ripuliscono le strade dai resti degli incendi. Una fragile speranza, ma che restituisce un’idea di futuro possibile. Karki arriva dunque al potere in un contesto che più precario non si può. Come prima donna premier del Nepal rappresenta una rottura in un contesto politico e culturale profondamente patriarcale.

È considerata una figura di rigore, famosa per le sue sentenze contro la corruzione, e proprio questo l’ha resa accettabile ai leader della protesta, che hanno riconosciuto la sua credibilità come figura esterna alla classe politica screditata. E tuttavia, la prima donna a guidare un Governo nepalese si trova davanti a un’impresa titanica: riportare la calma nelle strade, dialogare con una generazione che non vuole compromessi e ricostruire la fiducia in istituzioni che hanno perso ogni credibilità tradendo più volte le aspettative dei cittadini. Soprattutto dei più giovani. A spingere in piazza i ragazzi, difatti, non è stato l’oscuramento dei social media, o almeno non soltanto. In piazza è esplosa la rabbia di una generazione che sfugge a tutte le categorie fino ad oggi conosciute e presenti sulla scena politica del Paese himalayano. I ragazzi che urlano la loro rabbia per strada non sventolano né il libretto rosso di Mao né le bandiere monarchiche, come è accaduto in passato. Non si riconoscono in nessuna categoria ideologica. Non hanno agende politiche di alcun genere ma smartphone. I loro slogan non riguardano un’ideologia, ma la dignità personale: la fine della corruzione, della censura e di un’élite politica che si arricchisce mentre i giovani sopravvivono grazie alle rimesse dall’estero.

È una rivolta sociale, guidata da studenti e lavoratori che usano i social come arma e chiedono rispetto. Karki, con la sua credibilità di outsider, ha una chance unica per tentare una mediazione. Ma il suo Governo ad interim nasce fragile e, senza riforme concrete, rischia di passare alla storia soltanto come un gesto simbolico. Mentre Kathmandu brucia, i riflettori dei vicini non restano certo spenti. Il Nepal è piccolo, ma la sua posizione tra India e Cina lo rende strategicamente cruciale. L’India guarda con ansia a quello che accade oltre il confine aperto: teme che l’instabilità possa contagiare Bihar e Uttar Pradesh, ma al tempo stesso fiuta l’occasione di riportare Kathmandu nella sua orbita politica. La Cina, che ha investito miliardi in infrastrutture e progetti idroelettrici, teme per i suoi cantieri e diffida profondamente dei movimenti giovanili. Gli Stati Uniti, meno esposti di India e Cina, non hanno in Nepal interessi vitali né urgenti, ma l’instabilità del Paese non li lascia indifferenti.

Washington guarda a Kathmandu soprattutto come a un tassello nella competizione con la Cina. Da questo punto di vista, la crisi può persino trasformarsi in un’opportunità: costringe India e Cina a tenere lo sguardo rivolto alle montagne nepalesi e offre agli Stati Uniti la possibilità di proporsi come garanti di una transizione democratica senza dover correre i rischi di chi è in prima linea. Per Washington, insomma, il Nepal non è una priorità, ma può diventare una leva utile nella partita indo-pacifica. Tutti sanno che il Nepal non è un semplice puntino sulle mappe: è un cuscinetto, un corridoio, una pedina che può cambiare equilibri. Per questo ciascun attore regionale cerca di tirare il Paese dalla propria parte, mentre la strada interna resta incerta. La nomina di Sushila Karki a prima donna premier del Nepal è di per sé una rottura con il passato. Ma se diventerà o meno una pietra miliare nel rinnovamento democratico dipenderà da ciò che seguirà. Di certo, Katmandu è a un bivio. Può scivolare di nuovo nella stagnazione autoritaria o aprire finalmente un capitolo nuovo. E l’immagine che resta, alla fine, è quella dei ragazzi che raccolgono le macerie a mani nude: la generazione che ha incendiato le piazze ora prova a pulire le strade. Da quel gesto, fragile e potente, potrebbe ripartire il futuro del Paese. Â