Poesia: la voce di Stefano Simoncelli, scomparso di recente,ha intrecciato la vita quotidiana al richiamo ostinato delle presenze assenti
Stefano Simoncelli ci ha lasciati il 20 maggio scorso, ed è come se d’un colpo fosse divenuto egli stesso quelle ombre fuggevoli e sempre ritornanti nelle sue pagine; alle molte lettrici o lettori, potrebbe prima o poi rivelarsi con quella sua espressione agrodolce, dietro lo sbattere di uno stipite mosso dal vento o nel gioco d’ombre in una stanza remota.
Tutta la scrittura di questo grande poeta, compreso il suo ultimo libro, Visite notturne, sempre edito da Pequod, è una poesia che sempre parte dall’hic et nunc. Dal momento, con i suoi dolori, le lacerazioni, gli stupori, quella metafisica che dentro sempre vi si insinua. Ecco allora che questo verso, assolve a ciò che ogni scrittura dovrebbe: scuotere.
E Simoncelli, si è sempre messo a nudo, nelle relazioni anzitutto con certe figure esemplari, per lo più semplici, oramai scomparse, che sembrano ancora camminare nelle vie di ogni giorno, accennare quasi a un saluto: «Ogni tanto, specialmente all’alba, / si presenta un distinto signore / con un cappello di feltro / […] / e che rimane sempre lì, davanti al cancello, / come se non trovasse il coraggio di entrare. / “Babbo… babbo” mi sento che farfuglio / andandogli incontro nell’attimo esatto / in cui mi volta le spalle, dà un calcio / di sinistro alla ghiaia e scompare». È del 1981 la prima raccolta, Via dei Platani, edita da Guanda; presentazione e postfazione di due grandi del Novecento, Giovanni Raboni e Franco Fortini; nel 1989 esce con Poesie d’avventura, da Gremese, nella collana Gli Spilli diretta da Enzo Siciliano.
La sua attività poi si inabissa per un lungo periodo, quasi vent’anni, per riemergere nel 2004 con la raccolta, Giocavo all’ala e poi in stretta sequenza La rissa degli angeli e Terza copia del gelo. Ma quel silenzio così lungo, a pensarlo ora, somigliava a un foglio bianco, sì, ma non vuoto, incubava difatti nei suoi spazi, il tempo della scrittura a venire. E certo, il titolo che raccoglie nella penultima raccolta, Sotto falso nome, la prima parte delle poesie è molto indicativo: Radio silenzio. Qui lo strumento per antonomasia di collegamento tra voci, diviene medium di raccordo di strane frequenze, ne escono solo interferenze, monosillabi irriconoscibili, che tendono difatti al silenzio. Ecco, per paradosso, le parole di Simoncelli hanno sempre trasmesso l’approssimarsi al silenzio definitivo, dentro quel loro grande attaccamento per l’attimo. Ed è in questa dimensione altra, inconoscibile, che nei libri sembra tornare come una ossessione, che risiedono le figure a lui più care. Ondeggiano per un attimo sulla soglia del visibile, attraverso oggetti impensabili, come telefonini squillanti, odori perduranti, chioschi dismessi, sogni notturni.
Mondi adiacenti al nostro, che su questo a intermittenza si aprono: «La mia data di scadenza, / è trascorsa da tempo, / ma ho un impegno” /[…] / “Che impegno?” mi hai chiesto / accomodandoti scarmigliata / su una sedia della cucina /[…] / “Un libro” ho risposto / aggiustandoti con un dito / una ciocca ribelle sulla fronte / “l’ultimo, dove sei viva e ti parlo”».
Ebbene questo autore, ha composto per molta parte della sua parabola letteraria, dei breviari, sì, ma laici e – richiamando il titolo di una raccolta uscita nel 2020 per Pequod, A beneficio degli assenti – micro-storie che oscillano tra il veridico e l’onirico. Stralci di visioni, che sembrano appartenere per forza e profondità, non più alla storia di uno, ma a quella di una intera collettività. Ecco tutti gli scomparsi, percorrono una traiettoria circolare, sembrano provenire dall’antro di Euridice, si rendono da lì appena visibili, accennano a gesti familiari, un poco riconoscibili, avendo dell’aspetto di un tempo qualche carattere, tornano poco dopo, nella cavità nera da dove sono venuti. E certo l’autore, negli anni, annotò con dovizia di particolari nel suo taccuino, tutte le ombre che, come un viavai da quella grotta, uscivano ed entravano: padri, madri, conoscenti di un momento, conosciuti da una vita, ma ciò che davvero rimischiava le carte nei libri, era proprio l’esser egli stesso divenuto negli anni, una quasi ombra, un richiedente ostinatamente asilo a quel mondo che non è più dei vivi.
Ma ecco l’ultima Euridice di Simoncelli, Patrizia, moglie da sempre amata e andatasene troppo presto, sembra prendere sempre più piede; inizia già nel penultimo libro Sotto falso nome, a dar scossoni forti, sino a palesarsi chiaramente nell’ultimo, Visite notturne. E duole riprendere ancor più, quell’attimo dove tutto è iniziato, la rivisitazione dell’ultimo momento mortale di lei e di tutto ciò che attorno sembrava mantenere quel grado di intollerabile normalità: «[…] / Risento le mie grida/che rimbombavano per le camere, / le suppliche, il suo silenzio immobile, / gli scuri frustati da un vento funesto / che si accaniva dal mare, i beccheggi / delle barche che sembravano lamenti, / la neve prima dell’alba e poco altro. / Quando finirà questo momento?».
Le pagine di Stefano Simoncelli sono state quindi questo continuo crocevia tra vivi e morti, dove i morti parevano più vivi dei vivi; tutti sembravano ricamminare in lunga schiera vociante, rilluminare la gran via rattristata della nostra opaca contemporaneità. E allora è difficile non avvicinare questo poeta, per forza di visione, a quella grande tradizione romagnola del Novecento, non solo poetico-letteraria. Stefano è tornato, sì, nel lume di Patrizia ma non certo il suo variegatissimo coro di morti vivi, che rimarranno lì nei suoi mirabili versi, a restituirci, per paradosso, quella passione che fuoriesce dal mondo, sempre alla ricerca della sfuggente felicità.
 
			         
			         
			        