Nel cuore della digitalizzazione: dai deserti americani alle Alpi svizzere, i data center stanno ridisegnando le mappe energetiche del mondo. E Hyperion è solo l’inizio
Nel cuore della Louisiana, Meta sta costruendo qualcosa che somiglia più a un mito che a un’infrastruttura digitale: si chiama Hyperion e sarà uno dei più grandi data center mai realizzati. Destinato a raggiungere, dopo il 2030, la potenza di 5 gigawatt – più di una centrale nucleare – i suoi consumi saranno superiori a quelli di quattro milioni di abitazioni. Una fabbrica di dati pensata per sostenere l’intelligenza artificiale di nuova generazione.
Data center di queste dimensioni rappresentano il simbolo di un equilibrio fragile tra ambizioni tecnologiche e sostenibilità: richiedono infrastrutture energetiche proprie, stabili e sicure. Meta presenta Hyperion come un modello virtuoso di sostenibilità basato su fonti rinnovabili e mitigazione dell’impatto ambientale, ma servirà un monitoraggio attento e valutazioni di impatto a lungo termine, che considerino le complessità del sistema energetico statunitense e le risorse idriche coinvolte, fondamentali per il raffreddamento. Nel frattempo, le altre big tech, Google, Amazon e Microsoft, non stanno a guardare.
Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), entro il 2026 il consumo globale dei data center potrebbe superare i 1000 terawattora, più del fabbisogno annuo del Giappone. Ma come siamo arrivati a tutto questo? Pensiamo solo all’uso incontrollato e quotidiano che facciamo dei nuovi strumenti di AI: «Una singola interrogazione complessa di ChatGPT consuma molto più di una ricerca tradizionale – usiamo questi strumenti senza renderci conto dell’impatto ambientale», osserva Marina Natalucci, direttrice dell’Osservatorio Data Center del Politecnico di Milano.
Eppure, nonostante questa crescita, i data center restano ai più infrastrutture invisibili. «C’è scarsissima consapevolezza – continua Natalucci – il digitale appare immateriale, eppure è estremamente fisico. Ogni volta che mandiamo un messaggio, guardiamo un video in streaming, inviamo una mail, accediamo a un’app, lasciamo una traccia da qualche parte in un data center».
«Il data center è il cuore della digitalizzazione», sottolinea Sergio Milesi, presidente dell’Associazione Svizzera dei Data Center. «Chi dice ’ho il mio portatile, non mi serve il cloud’ non sa che anche quel portatile, per accedere ai dati, si connette a un data center. Sono infrastrutture critiche come le autostrade o le centrali elettriche. Senza, la società digitale si ferma».
«Il mercato si sta distribuendo – spiega Natalucci – avremo un’architettura mista, con grandi e piccoli centri integrati». Marco Bettiol, economista dell’Università di Padova, descrive il quadro in evoluzione: «Passiamo dagli hyperscaler, grandi operatori con enormi data center, ai modelli edge, più piccoli e vicini alla domanda. Questi ultimi saranno una parte cruciale della nuova rete distribuita, connessi alle antenne del 5G, per elaborare localmente e restituire risposte in tempo reale, fondamentali nel caso di applicazioni sensibili alla velocità di risposta, come le auto a guida autonoma».
Questa nuova geografia del digitale impone delle scelte. La Svizzera, pur lontana dai riflettori dei progetti titanici americani, si sta ritagliando un ruolo di rilievo. La sua posizione geografica, la stabilità politica, la legislazione favorevole alla protezione dei dati e la qualità del sistema formativo la rendono attraente per governi e imprese. «Come Associazione vogliamo far capire che la Svizzera è un buon luogo per installare queste infrastrutture», afferma Milesi. La recente riunione dell’Associazione Svizzera dei Data Center in Ticino ha segnato un passaggio simbolico: «Nel 2012 c’erano solo piccoli spazi privati», ricorda Nicola Moresi, imprenditore e fondatore nel 2012 del primo data center pubblico della Svizzera italiana. «Oggi, solo nella nostra struttura, a parità di superficie, la quantità di dati è cresciuta di dieci volte». E a crescere sono anche i consumi: «Quando abbiamo iniziato, un rack, un armadio con server, di un metro quadrato assorbiva circa 8 kW; oggi può arrivare a 800. L’equivalente di centinaia di asciugacapelli accesi insieme».
In Svizzera, ci sono 115 data center concentrati nelle grandi aree urbane e consumano il 4% dell’elettricità nazionale; secondo le stime di InfraWatt, il loro consumo energetico potrebbe raggiungere i 2,7 e 3,5 TWh entro il 2026, corrispondenti a una quota tra il 4,7% e il 6,1% del fabbisogno energetico nazionale. Oggi, a livello europeo, secondo IEA (L’agenzia internazionale dell’energia) i data center assorbono il 2-3% dell’elettricità totale, questa quota potrebbe salire al 5-6% entro il 2030, con un consumo annuo tra i 150 e i 160 TWh. Il motore di tutto questo? L’espansione dell’AI e del cloud computing.
Sul fronte normativo, la direttiva UE 2023/1791 obbliga – dal 2024 – tutti i data center sopra i 500 kW a dichiarare pubblicamente i consumi, a migliorare il proprio indice PUE (Power Usage Effectiveness), e adottare sistemi di recupero del calore. Il PUE misura l’efficienza energetica: più il valore è vicino a 1, più l’energia è usata direttamente per i server. La Svizzera, pur fuori dall’UE, si muove nella stessa direzione con certificazioni (come la Swiss Data Center Efficiency Association) e progetti di teleriscaldamento. Dietro questa crescita si nasconde una sfida tecnologica, ma soprattutto politica e sociale: quale mondo vogliamo? A quale costo? L’energia non è solo una voce di spesa, è una condizione abilitante. Se salta la corrente, il cloud si ferma, e con esso pezzi importanti della nostra società. Ecco perché in Svizzera – ma anche in Europa – si investe sempre più in resilienza: linee ridondanti, doppi generatori, backup energetici e tecnologie per il raffreddamento ad alta efficienza.
Con la ricerca di sistemi sempre più efficienti crescono anche le sperimentazioni su modelli di economia circolare, sul riuso di acqua e calore. In Svizzera, alcuni esempi concreti mostrano come il calore prodotto dai server possa diventare un elemento virtuoso della transizione energetica. Sergio Milesi sottolinea con chiarezza il potenziale di questo approccio: «Abbiamo attualmente due progetti realizzati nella regione di Zurigo, dove coi data center riscaldiamo 5000 case». In altri casi il calore in eccesso è messo a disposizione dell’industria locale. «A San Gallo, per esempio, un data center trasferisce il calore di scarto a un produttore di formaggio», racconta Milesi. «Il produttore non paga nulla per l’energia ricevuta: è una situazione win-win».
Ma c’è un’altra dimensione spesso trascurata: quella nascosta nel ciclo di vita dell’hardware. «Nelle nostre analisi, abbiamo applicato il Life Cycle Assessment ai data center», spiega Bettiol. «Oltre all’energia operativa, abbiamo stimato quella incorporata nella produzione, nei trasporti, nella logistica. Una quota enorme e spesso ignorata». Google stima che il 70% delle proprie emissioni derivi da queste fonti indirette: 14 milioni di tonnellate di CO₂ l’anno, pari all’energia consumata da 2,6 milioni di europei. «Purtroppo i produttori non sono ancora obbligati a dichiarare i consumi legati per esempio alla fabbricazione dei chip», denuncia Bettiol. Nello stesso modo, anche la Swiss Data Center Efficiency Association studia indicatori di efficienza basati non solo sul consumo elettrico, ma anche sul consumo di acqua, sul calore e sulla capacità di riutilizzo. L’obiettivo? Fare della Svizzera un laboratorio di efficienza digitale.
«Serve trasparenza – conclude Bettiol – bisogna incentivare gli operatori a dichiarare i consumi, e allo stesso tempo coinvolgere i cittadini. Oggi non abbiamo strumenti per misurare il nostro inquinamento digitale, mentre possiamo misurare per esempio il tempo d’uso del nostro smartphone».
Hyperion è davvero l’inizio di una nuova era? Forse sì. Ma il futuro dei data center non è scritto. Gli Stati Uniti puntano su mega-infrastrutture energivore, e in un mondo globale i servizi che usiamo dipendono anche da queste infrastrutture. L’Europa – e la Svizzera – dal canto loro possono scegliere e promuovere un’altra via: quella della trasparenza, dell’efficienza, della consapevolezza. Ma il vero nodo non è solo tecnologico o ambientale: è politico e culturale, perché la questione energetica dei data center è anche un problema di equità: chi controlla i flussi di dati, controlla una parte importante delle nostre vite, e l’infrastruttura su cui si regge questa nuova economia non può restare invisibile e nelle mani di pochi.