La parola all’esperto di comunicazione Pier Paolo Pedrini che ha analizzato slogan e manifesti elettorali non solo ticinesi
Come comunicano i leader politici ticinesi, e non solo? Quali strategie adottano per conquistare l’elettorato? Dall’analisi fatta in Slogan e campagne elettorali (Carocci) di Pier Paolo Pedrini, consulente e docente di comunicazione, non emergono dati incoraggianti. Tutti/e – afferma l’autore – ripetono più o meno gli stessi concetti con i medesimi termini, «riconducibili a quanto si deve dire in determinate circostanze; parole d’ordine e frasi ad effetto che erano già conosciute dalla propaganda della guerra, poi dalla pubblicità e che vengono espresse con l’aiuto di stratagemmi retorici teorizzati dai classici». Per dimostrarlo Pedrini presenta una carrellata di immagini di candidati contemporanei confrontata con quelle utilizzate negli ultimi 50 anni da politici carismatici (de Gaulle, Giscard d’Estaing, Chirac, Reagan e Trump, Kohl e Merkel, Berlusconi e Meloni, Putin e Zelensky), evidenziando schemi che si ripetono nel linguaggio e nella presentazione scenica.
«Sebbene tutti i partiti ripetano che la comunicazione è importante – dice l’autore – molti dei loro manifesti evidenziano una scarsa preparazione comunicativa. Il linguaggio risulta scontato, talvolta semplicemente copiato da altri, da chi in passato ha avuto successo (uno su tutti il “Yes we can” di Obama che tra l’altro ricorda molto “Sì se puede”, ovvero “Sì possiamo”, lo slogan con cui Gonzalo Sánchez de Lozada ha vinto le Presidenziali boliviane del 2002). Spesso chi viene rappresentato non riconosce il valore significativo del linguaggio per la comunicazione della sua identità. Vince la celebrazione del vecchio. Con poche, interessanti, eccezioni. La politica si rifà a modelli studiati dalla teoria della persuasione (come le sei regole di Robert Cialdini ovvero reciprocità, impegno e coerenza, riprova sociale, simpatia, autorità e scarsità) e dalla pubblicità. Forse per pigrizia, o forse per paura di sbagliare, i candidati aderiscono volentieri a formule stranote».
Già negli anni Cinquanta la politica americana comincia ad essere profondamente influenzata dalle tecniche di marketing e pubblicità; la tv diventa un mezzo centrale per raggiungere gli elettori. «Vendete i nostri candidati nel modo in cui il mondo degli affari vende i suoi prodotti» è una frase, spesso attribuita ad Eisenhower, che riflette bene lo spirito dell’epoca. Uno spirito che favorisce appunto la personalizzazione del candidato (i politici diventano un «brand» da promuovere con un’immagine curata come quella di un prodotto commerciale), l’uso di tecniche per solleticare le emozioni di chi vota, influenzandone così le decisioni, la spettacolarizzazione della politica che diventa anche intrattenimento, la personalizzazione dei messaggi per gruppi specifici di elettori… Ed è così ancora oggi.
Spiega Pedrini: «Lo stile comunicativo dei leader politici si basa sulla semplificazione e sulla manipolazione: “so cosa vuoi sentirti dire e te lo dico”. Il linguaggio dev’essere semplice perché deve presentare la soluzione ai problemi più sentiti dalla gente ed essere capito da tutti. Dev’essere anche vago, perché così è più facile che ognuno pensi si stia parlando del suo problema». Da qui arrivano la genericità e spesso la banalità degli aggettivi scelti (uno su tutti è «concreto», detto da chiunque, il Centro si è definito «il Partito della concretezza») e degli avverbi (come «insieme», che rimanda all’inclusione e che numerosi partiti usano). Parole che vengono racchiuse in formule e ripetute in modo uguale da candidati di ogni appartenenza politica e di ogni Nazione. A questo proposito – osserva l’intervistato – è significativo evidenziare che l’esortazione «insieme ce la faremo», usata da molti candidati e politici affermati (anche Cassis l’ha ripetuta nei suoi auguri di Natale), era già stata scelta da Helmuth Kohl negli anni Ottanta del Novecento.
«Le formule impiegate – spiega Pedrini – ruotano perlopiù attorno alla celebrazione di valori universali e a concetti di cambiamento (“Dobbiamo cambiare”, diceva Marina Masoni, e con lei tanti altri), coerenza, coraggio, fare (“+ fatti – bla bla” della Lega, “fare bene”, “fare meglio”, “c’è da fare”). Qui spesso il candidato ha le maniche della camicia rimboccate. Senza dimenticare forza, futuro e giustizia (a me è piaciuto “Voto Tuto Rossi perché è giusto”, come a dire “se volete giustizia eleggete persone che la incarnino”). Si mescolano caratteristiche del proprio carattere (impegno, passione, determinazione) con il proprio programma (sicurezza, speranza), alternando la razionalità all’emozione. Parole e concetti che hanno un’eco positiva nella mente umana».
I politici sfruttano l’emozione di elettori ed elettrici. Da quando la tv è diventata il mezzo principale di informazione, il loro linguaggio e il modo di presentarsi sono cambiati (ora sono i social a dominare ma la logica è uguale). «Si mostrano segnali di vicinanza con i cittadini (“Io sto dalla tua parte”, lo slogan di un candidato ticinese), si sceglie un linguaggio comprensibile che crea legami affettivi fingendo di essere normali cittadini (sono “Uno di voi” dicono in parecchi). C’è chi come slogan ha scelto “Non sono un politico. Sono un cittadino” e anche Trump, meno modestamente, ha eccitato il suo pubblico dicendo “Non sono un politico. Sono una star”». L’importante è allontanarsi da un certo modello precedente, connotato come freddo e distante dai problemi delle persone comuni. I/le leader inoltre cercano di essere attraenti e curano l’aspetto fisico. «Oltre i molti che fanno diete, ricordo che Mitterand si è fatto limare i denti – dice Pedrini – Berlusconi ha optato per lifting e trapianti di capelli, Dilma Rousseff si è sottoposta a numerosi interventi di chirurgia estetica, altri si adattano alla moda con vestiti, accessori e occhiali. Più si mette l’accento sulla personalità e più si afferma l’imperativo di ottimizzare la propria immagine per mostrarsi moderni e vicini agli elettori, più si usa Photoshop per ritoccare i manifesti». Gli slogan abbondano di cuori e dichiarazioni d’amore. La seduzione trionfa e oggi più che mai si vota più una persona che piace e che ispira fiducia piuttosto che un partito o un programma.
Ci sono differenze tra slogan di destra e di sinistra? «Dai messaggi analizzati, la sinistra si rifà maggiormente a valori assoluti – risponde il nostro interlocutore – mentre centro e destra sono più concentrati sul “fare”. E questo non è un fenomeno solo ticinese. Da comunicatore preferisco i manifesti dei partiti di sinistra, con grafica coerente: c’è un forte richiamo al partito e sembra che il candidato abbia scelto quale valore promuovere. Mentre quelli di centro e di destra lasciano libera espressione in tutto, e il logo del partito è secondario. In questo sono molto moderni». Per quello che riguarda l’intelligenza artificiale? «Mah, penso al suo pesante uso nelle elezioni in India e negli Stati Uniti. L’IA uniforma e rende tutti i candidati e i loro messaggi ancora più uguali. Essendo abituata ad attingere da tonnellate di campagne precedenti, per ora non sembra sfornare nulla di originale».
I candidati possono utilizzare il libro come una specie di manuale, conclude Pedrini, per capire cos’è già stato fatto o detto, al fine di creare qualcosa di nuovo che li distingua dai concorrenti e comunichi la loro personalità. «Nello stesso tempo ho voluto mettere gli elettori sull’attenti: nulla è improvvisato e neanche sincero. I manifesti riportano quello che è meglio dire e cercano di “vendere” al meglio qualcuno, qualcosa. Aveva ragione Ronald Reagan a pensare che “La politica è stata definita la seconda più antica professione del mondo. E io ho scoperto che talvolta assomiglia molto alla prima”».