Labubu: un esempio del soft power cinese

by Claudia
15 Settembre 2025

L’enorme successo dei pupazzi dal sorriso inquietante segnerebbe la transizione del Paese asiatico da «fabbrica mondiale» a «centro creativo globale»

Alla Mostra del Cinema di Venezia Charly Defrancesco, marito dello stilista statunitense Marc Jacobs, ha osato un Labubu come cravatta. Mentre qualche tempo fa è diventato virale sui social americani un video dell’attore Liam Neeson in cui un giornalista gli mostrava la foto del pupazzetto del momento, lui lo guardava interdetto e diceva: «Si mangia?». Secondo gli analisti di fenomeni di mercato non c’è niente che rappresenti di più la viralità di un prodotto dei Labubu, e quindi il complesso (e a tratti imprevedibile) meccanismo che c’è dietro il successo di un bene che acquista valore per la sua repentina diffusione. Ma nel caso dei Labubu c’è anche dell’altro: l’economia si unisce alla politica, alla diplomazia e al soft power. Ma una cosa che sembra impossibile da ignorare, una mania globale che si riconosce ovunque, in realtà – e lo dimostra il video con Liam Neeson – è famosa soltanto per un breve periodo, specie sui social network e nelle comunità di appassionati.

Dei Labubu si parla anche in Europa da circa un anno, da quando cioè Lisa, membro delle Blackpink – band sudcoreana tra le più seguite al mondo – ha pubblicato sul suo profilo Instagram la fotografia di un mostriciattolo di peluche dal sorriso inquietante che era attaccato alla sua borsetta. Ma per capire l’origine dei bizzarri pupazzi bisogna tornare indietro di dieci anni. Nel 2015 l’illustratore di Hong Kong Kasing Lung, cresciuto tra l’ex colonia inglese e i Paesi Bassi, presenta per la prima volta alcune creature fantastiche nella sua serie di libri illustrati The Monsters ispirati al folklore nordico. Li chiama Labubu, e li disegna come una specie di elfo mostruoso con orecchie appuntite, denti aguzzi e un sorriso che si riferisce all’estetica asiatica delle cose «carine e strane» (in inglese si definiscono cute but creepy). Poi nella vita di Lung è arrivata Pop Mart, l’azienda produttrice di giocattoli cinese che, in termini di fatturato, ambisce a competere con la danese Lego. Quella di Pop Mart è una storia nella storia dei Labubu, due destini imprenditoriali che s’intrecciano: fondata nel 2010 da Wang Ning come piccolo negozio di articoli pop-cult alla moda per ragazzi, a un certo punto, ispirata dai gashapon giapponesi, cioè dalle macchinette che vendono pupazzetti, Pop Mart inizia a creare i suoi roboshop, dove vende accessori e giocattoli a sorpresa in collezioni uniche, disegnate dai migliori designer in circolazione. Non solo a prezzi accessibili: nel 2021, in piena pandemia, Pop Mart firma la collaborazione con gli eredi dell’artista americano Keith Haring: il risultato è una bambola ispirata all’estetica di Haring venduta anche a 1500 dollari. E del resto un anno prima era arrivato il successo e l’internazionalizzazione, con il listing nella Borsa di Hong Kong che ha fruttato 676 milioni di dollari e una valutazione iniziale di circa 7 miliardi. Nel 2024 la linea Labubu da sola ha portato nelle casse di Pop Mart 418 milioni di dollari, grazie ai negozi fisici e a roboshop sparsi in tutto il mondo.

Il giro d’affari è talmente esteso che ci ha messo sopra gli occhi pure la criminalità. Di recente un Dipartimento di polizia della California del sud ha annunciato di aver recuperato un cargo di pupazzetti Labubu per un valore di circa 30 mila dollari che erano stati rubati in un magazzino probabilmente da due dipendenti minorenni. Mentre il Governo inglese ha emesso un avviso sulle versioni fake dei pupazzi – li chiamano Lafufu – dopo che erano stati sequestrati migliaia di falsi in giro per il Regno Unito. Rispetto ai 20-40 dollari che può costare un Labubu sul sito di Pop Mart nella sua versione base (però ce ne sono alcuni da centinaia di dollari), i falsari riescono a farne versioni simili da rivendere a non più di 4 dollari. Con costi per la sicurezza altissimi. «I falsi semplicemente non valgono il rischio», perché «sono realizzati male e non sono stati sottoposti agli stessi standard e controlli degli originali», ha fatto sapere in un comunicato il consiglio comunale della cittadina di Hull. Nonostante i Labubu siano diventati nel giro di poco un pezzo importante della politica di promozione della Repubblica popolare cinese, un mezzo di soft power che Pechino non era mai riuscita a ottenere né con il cinema né con la musica, la gran parte dei falsari dei Labubu lavora e produce i pupazzi fake per lo più dentro al territorio cinese. E questo naturalmente è un fenomeno che le autorità stanno in tutti i modi cercando di reprimere.

Perché qualche mese fa era stato il «Quotidiano del popolo», cioè l’organo ufficiale della propaganda del Partito comunista cinese, a dire che il successo dei Labubu segnala «un più ampio cambiamento nel ruolo della Cina sulla scena globale», e a occuparsi dei mostri di peluche era stato perfino «Qiushi», la rivista di punta del Comitato centrale del Partito comunista cinese, dove si leggeva che «Il successo dei Labubu segna la transizione della Cina da “fabbrica mondiale” a “centro creativo globale”», un destino che forse il suo creatore Kasing Lung non avrebbe mai immaginato. Per decenni, ha scritto in una lunga analisi il «South China Morning Post», «la Cina ha prodotto la maggior parte dei giocattoli del mondo, compresi i must-have del passato come i Beanie Babies (inventati negli Usa), i Tamagotchi (Giappone) o i Fidget Spinner (Usa). Ma questo è uno dei suoi primi grandi successi globali creati internamente, con il 40 per cento delle vendite all’estero».

L’America non è stata immune dalla febbre per i Labubu, e le tensioni commerciali fra Stati Uniti e Cina sono un problema: Pop Mart, come la maggior parte dell’industria dei giocattoli, sarebbe certamente colpita dai dazi reciproci fra Washington e Pechino se la tregua commerciale non dovesse durare fino a novembre prossimo. Pop Mart ha rassicurato i suoi clienti americani sul fatto che assorbirà il prezzo dei dazi senza pesare sulle tasche dei consumatori, ma sarà vero? Del resto, il fenomeno improvviso e globale Labubu ha fatto riflettere gli economisti anche su un altro punto: l’analista e accademico David Lang ha detto al «New York Post» che «quando assistiamo a questo tipo di mania in un clima economico incerto, in cui la fiducia dei consumatori è nella migliore delle ipotesi disomogenea e carica di ansia, è difficile non guardare alla cosa e riflettere sulla sua razionalità». Chi sceglie un Labubu raro, di fascia medio alta, piuttosto che una borsa firmata o un fine settimana fuori, sta facendo una scelta razionale oppure sta soltanto cambiando le regole del mercato e del lusso? Il futuro, e la durata della moda dei Labubu, ci darà la risposta.