Il risultato delle ultime elezioni ci racconta di un Paese diviso a metà, in recessione da tre anni, che sceglie un cancelliere debole, Friedrich Merz, mentre avanza l’estrema destra di Alternative für Deutschland
La Germania vive la sua più grave crisi dalla cosiddetta unificazione del 1990. Tutto nasce infatti da quell’evento imprevisto, non preparato e in fondo non voluto dai tedeschi occidentali. Causato dal crollo del regime di Berlino est, a sua volta dovuto alla decisione sovietica di sbarazzarsi della «zavorra» imperiale in Europa centrale e orientale, che trovò la classe dirigente di Bonn completamente spiazzata. Tanto che all’epoca molti nemmeno troppo segretamente speravano che Erich Honecker, l’anziano leader della DDR, potesse resistere alla marea di proteste nel suo Paese. Trentacinque anni dopo, la distanza fra l’ex Germania est e quella ovest non diminuisce. Anzi, continua a crescere. Come conferma clamorosamente il voto del 25 febbraio.
La carta elettorale mostra due Germanie che più diverse non potrebbero essere. In quella orientale, che ospita il 20% dell’elettorato, l’Alternativa per la Germania (AfD), partito nazionalista con punte neonaziste soprattutto in Turingia e nella sua organizzazione giovanile, stravince in quasi tutti gli Stati, con l’eccezione di Berlino dove si afferma la Linke (Sinistra). In quella parte di Germania i principali partiti sono quelli che nell’altra Germania sono considerati intoccabili. Nel senso di non essere abilitati a formare coalizioni di Governo con i partiti tradizionali, storicamente sinonimo di CDU-CSU e SPD, senza considerare la FDP (liberali) in crisi finale. A questi si sommano i più recenti Verdi, in rapida marcia dalla sinistra al centro. Inoltre, l’AfD ha conseguito importanti successi anche all’ovest, dove si colloca intorno al 18%, poco meno del risultato nazionale (20,8%). Quindi avremo quasi certamente un Governo di «grande coalizione» CDU-CSU più SPD, ridotta ormai a percentuali quasi dimezzate rispetto ai suoi periodi alti. La più piccola delle grandi coalizioni della storia tedesca.
Questo risultato ci dice il fallimento del Brandmauer, il muro tagliafuoco eretto dai partiti stabiliti per contenere la crescita dell’AfD, trattata come partito di appestati. Come quasi sempre in questi casi, la demonizzazione favorisce il demonizzato. Rispetto alle ultime elezioni non solo il partito guidato da Alice Weidel ha raddoppiato i voti, ma si è affermato per la prima volta come forza nazionale. Soprattutto in provincia, nelle campagne, nelle città medio-piccole. Sotto questo profilo il discorso del vicepresidente americano J. D. Vance alla conferenza di Monaco, che invitava ad abbattere quella barriera e a misurarsi senza tabù con la destra estrema, si è rivelato profetico. Questo non vuol dire che la AfD sia oggi cooptabile nel sistema. Significa però che l’idea di metterla fuori legge, coltivata da una parte dell’opinione pubblica e dei partiti tradizionali, appare tramontata. Anche perché dichiarare anticostituzionale una forza che rappresenta un elettore su cinque apparirebbe una scelta poco giustificabile in democrazia.
Avremo dunque un cancelliere debole, il cristiano-democratico Friedrich Merz, nemesi di Angela Merkel (i due si detestano) ed esponente della destra della CDU, con una socialdemocrazia dimezzata a sostenerlo. Ma l’aspetto più interessante è la radicalizzazione del centro. In omaggio alla teoria del muro tagliafuoco, Merz ha cercato di posizionarsi sulla destra per sottrarre voti all’AfD. Secondo un’analisi della «Neue Zürcher Zeitung», il programma della CDU è uguale o simile a quello dell’AfD nel 76% delle materie. Soprattutto nel decisivo dossier migratorio. D’altronde, il 57% dei tedeschi è favorevole a respingere alla frontiera i richiedenti asilo. Le loro domande di ingresso dovrebbero essere valutate al di fuori dei confini nazionali, con severità molto maggiore di quanto finora accaduto.
Gli aspetti strutturali della crisi tedesca sono particolarmente scoraggianti. La massima economia europea è al terzo anno consecutivo di recessione. Le forniture di gas russo a basso costo sono ferme, il mercato cinese, fondamentale per l’industria tedesca, si è contratto sensibilmente, causa soprattutto il disastro del settore automobilistico. La Germania ha dovuto riprendere a usare il carbone in quantità notevoli, mentre valuta il ritorno al nucleare. Civile. Il che però non esclude per il futuro l’opzione militare, visto il clima di totale incertezza che circonda Berlino.
Lo shock geopolitico si esprime nello scontro aperto con gli Stati Uniti. I dazi del 25% contro gli europei annunciati da Trump possono accelerare la caduta del Prodotto interno lordo, anche se forse saranno ridotti. Più grave ancora, i tedeschi sanno di non poter più fare affidamento sugli americani per la propria sicurezza. Ciò proprio mentre l’Ucraina pare pronta a firmare, su pressione americana, un cessate-il-fuoco con la Russia a condizioni particolarmente sfavorevoli. Il che apre un problema di stabilità permanente nello spazio intermedio fra Germania e Russia, da gestire senza, se non contro, l’America.
Infine è evidente che in questo caos tutti gli europei guardano prima alle emergenze di casa propria, solo poi alla cooperazione in ambito Ue. Sterilizzato di fatto l’asse con la Francia, Berlino si trova piuttosto isolata, come d’altronde tutti gli europei, che faticano a trovare un minimo comune denominatore in quasi ogni campo. Pessime notizie per gli altri europei e per il mondo. Tutti sanno che cosa significa per la nostra sicurezza e il nostro benessere una malattia della Germania. E non è detto che si tratti di parentesi legata all’avvento di Trump. Ma di questo cominceremo a renderci conto solo fra qualche mese. Sempre che la velocità della storia in diretta non ci sorprenda ancora scoperti, con la guardia bassa.
