We love you, Joe

by Claudia
26 Agosto 2024

«I love Joe ». Alla convention che ha consacrato Kamala Harris candidata ufficiale dei democratici per la corsa alla Casa Bianca, i cartelli più numerosi tra il pubblico recavano la scritta «Amo Joe». Adesso tutti l’applaudono commossi e lui parrebbe essersene fatta una ragione, ma nelle ultime settimane Joe Biden deve avere smantellato e ricostruito più volte, come un puzzle che non si risolve mai, la propria idea di sé stesso, prima di rassegnarsi al passaggio di testimone alla vice.

In quella stessa occasione ha dato prova di sincerità confessando di «venerare» (sic) la sua carica, «che è stato l’onore della mia vita», ma di amare di più il suo Paese. Deve averlo detto a denti stretti e non ha fatto nulla per nasconderlo: «Credo che il mio primato come presidente, la mia leadership nel mondo, la mia visione per il futuro dell’America – ha infatti aggiunto – meritassero tutti un secondo mandato. Ma niente può ostacolare il salvataggio della nostra democrazia, nemmeno l’ambizione personale». La standing ovation che gli è stata tributata per quelle parole non l’aveva ricevuta neppure nel 2020 al momento della nomina, avvenuta del resto in piena mestizia pandemica. L’iper celebrazione di un candidato divenuto scomodo e, per questo, invitato ad andarsene in mille modi e da mille colleghi di partito fino a pochi giorni prima, fa pensare a uno sfogo catartico dei democratici, terrorizzati dall’idea che il vecchio presidente, uscito malconcio dal duello in tv contro Trump, mentalmente un po’ confuso, e in generale malfermo sulle gambe da un pezzo, si intestardisse in una sfida che l’avrebbe visto con ogni probabilità soccombere sotto i colpi della sicumera sprezzante e – al suo confronto – «giovanile» dell’avversario repubblicano.

Tutti si tolgono un peso dallo stomaco e l’anziano guerriero torna a casa (a tempo debito, cioè a fine mandato) traballante ma ricoperto di allori, col dubbio di avere fatto la cosa sbagliata, ma comunque facendola. Perché è oggettivamente difficile, per una persona ambiziosa e capace, azzeccare la finestra spazio-temporale che gli permetta di dare il meglio di sé al momento giusto. «Quando avevo 30 anni – ha ricordato Biden – mi dicevano che ero troppo giovane per fare il senatore, adesso che sono troppo vecchio per fare il presidente». Si è spesso «fuori tempo» per il posto che si desidera. E, se ci si arriva, quando è il momento di andarsene per molti è una tragedia.

Indipendentemente dalle idee politiche e dalla sfida contro Trump, su cui lasciamo volentieri che a decidere siano gli americani, we love you, Joe: ti amiamo Joe, perché rappresenti tutti quelli che sanno tirarsi indietro prima di diventare ridicoli. Ho visto direttori d’azienda, CEO, capi uffici, ma anche vescovi, presidenti di comitati culturali o benefici (giganteschi o minuscoli), responsabili di gruppuscoli del tempo libero lasciare obtorto collo la funzione dopo anni e annorum di potere, depressi, o palesemente inviperiti per l’inconfessabile ragione che gli toccava rinunciare all’aura di privilegio legata al loro status di «superiori», foss’anche di piccolissimo rango.

Ci sono persone che entrano in osmosi con le proprie poltrone e si identificano col potere al punto che fuori dall’ufficio non si sentono nessuno. Figurarsi se l’Ufficio è quello Ovale di Washington. Ma, alla fine siamo tutti «padroni di un granello di polvere». Ogni posto importante, dal presidente degli Stati Uniti al responsabile dello sgabuzzino delle scope, è passeggero, e legare il cuore al nostro pezzetto di potere in terra è il modo migliore per ipotecare l’infelicità (non solo la propria).