Si parla molto di egemonia culturale. È un vecchio concetto gramsciano anche se nei Quaderni del carcere l’espressione «egemonia culturale» ricorre una volta sola, nel paragrafo 3 del Quaderno 29, databile al 1935, intitolato Focolai di irradiazione di innovazioni linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse nazionali. È opportuno citare il brano che la contiene: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale».
Nella prima metà del secolo scorso, quando Gramsci osservava le contraddizioni della società in cui viveva, l’egemonia culturale era rappresentata dalla borghesia. Questa aveva il dominio sui proletari, quella classe operaia venuta fuori dalla proliferazione della società industriale. I proletari, dal momento che la borghesia era la classe egemonica, rappresentavano la classe subalterna. Secondo Gramsci, le classi subalterne erano tali perché non avevano il potere di auto-rappresentarsi di fronte al divenire della storia.
Oggi, invece, il concetto di «egemonia culturale» è diventato una sorta di cavallo di battaglia e di rivendicazione delle destre europee. Per esempio, come è stato osservato da più parti, da quando la maggioranza di destra è arrivata al governo in Italia, il tentativo di declinare una «nuova» egemonia culturale si è articolato attraverso due direttrici diverse. Da un lato, vi è stata una volontà di occupare tutti i luoghi del potere culturale, facendo coincidere la nuova egemonia con una semplice e abituale occupazione dei posti offerti dal pallottoliere dello spoils system. Dall’altro lato, vi è stata una volontà di intendere, per paradosso, un esercizio dell’egemonia culturale proprio in senso gramsciano: ricerca di occasioni per manifestare una forma di «dominio culturale», rispolverando un album di famiglia di pensatori di destra, tra cui Giuseppe Prezzolini, il cui archivio si trova presso la Biblioteca Cantonale di Lugano.
Per decenni abbiamo sentito parlare dell’«egemonia della sinistra». Dall’inizio del nuovo secolo, la frase è diventata un tormentone ripetuto ossessivamente, con senso di rivalsa, dagli esponenti dei governi berlusconiani che sono stati in carica dal 1994 al 2011. Ma l’egemonia culturale della sinistra è già da tempo defunta, caduta sotto i colpi dell’industria culturale (il cinema dei fratelli Vanzina, le commediacce all’italiana, i bestseller di consumo, il pop), dell’ideologia berlusconia espressa con perizia nelle sue tv (ma anche in Rai), dal declino delle élite e dall’idolatria del consumo e dell’individualismo. Alla catastrofe della sinistra, Edmondo Berselli aveva già dedicato un libro nel 2008, Sinistrati (Mondadori).
Secondo Giuseppe Vacca, storico, a lungo presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma, la vera egemonia politica in Italia è stata esercita prima dalla Democrazia Cristiana, poi da Silvio Berlusconi. «Il Cavaliere – ricorda Vacca – dichiarò che i milioni di italiani che avevano votato per lui erano il pubblico che in quindici anni era stato plasmato e fidelizzato dalle sue televisioni». Nella pratica, la politica culturale di chi governa si sostanzia sempre nell’occupazione sistematica di tutte le reti della tv pubblica, portando alle estreme conseguenze le abituali lottizzazioni di tutti i governi, e nella trasformazione della scuola pubblica in «una fabbrica del consenso».
Bisognerebbe riuscire a scindere la parola «egemonia» dall’aggettivo «culturale». Come suggerisce il filosofo Massimo Cacciari, quando si chiede se esiste una cultura di destra: «Vi è cultura “di destra”? Certo che sì, e anche grande, come quella vera “di sinistra” ha sempre saputo. Potremmo allora pensare a qualcosa sullo “scontro tra civiltà” alla luce di Terra e Mare di Carl Schmitt (…). Magari potremmo allargare l’orizzonte e con una serie di mostre e convegni illustrare, studiare le conseguenze del crollo del sacro e delle tradizioni religiose in Occidente accompagnati dai meravigliosi saggi dei Guenon e dei Coomaraswamy. E poi con Pavel A. Florenskij opporre l’arte dell’icona orientale a quella della civiltà europea occidentale. Sul piano, poi, della filosofia politica – se vi fossero istituzioni a ciò dedicate – una “cultura di destra” d’alto profilo riprenderebbe e aggiornerebbe le formidabili analisi critiche della democrazia liberale fornite dai Mosca e dai Pareto».
Egemonia della cultura, senza destra o sinistra.