In ognuno di noi sonnecchia un individuo pericoloso che, in determinate circostanze, può diventare un mostro. Quando il settimanale che avete fra le mani stava andando in stampa, non c’erano ancora conferme definitive su alcuni degli episodi più efferati che sarebbero successi nell’ambito della guerra scatenata da Hamas contro Israele. Non sapevamo, ad esempio, se nell’attacco dei terroristi contro un kibbutz fossero davvero stati decapitati dei bambini israeliani. O che sorte attendessero gli ostaggi. Ma era già lapalissiano che di orrori ne erano comunque stati perpetrati parecchi.
Vien da chiedersi in quale momento un uomo smetta di essere un uomo e cada preda di quello che definirei l’algoritmo del male. Hannah Arendt parlava di banalità del male, che consisterebbe nel volgere lo sguardo all’altra parte, girare le spalle all’ingiustizia, eseguire burocraticamente gli ordini più spietati come se fossimo macchine per poter poi attribuirne la colpa ai superiori, come è successo nei processi ai nazisti.
Ma per certi balzi quantici verso una ferocia maggiorata questa spiegazione non basta. Ho sentito al telefono un caro amico ebreo: «È la terza Shoah», sbotta, «l’unica soluzione è radere al suolo Gaza». Una persona squisita, pacifica, colta, intelligente e di eccezionali qualità morali, invocava lo sterminio del nemico. Ho pensato che una reazione del genere potesse emergere solo da qualcuno che ha l’Olocausto nel sangue. Quando intervisto un sopravvissuto ad una delle troppe guerre che ancora infiammano il pianeta (l’apposita pagina di Wikipedia conta almeno 47 conflitti in corso), mi trovo sempre davanti qualcuno che fino a qualche tempo prima viveva una vita normale, ma a un certo punto si è sentito vittima di aggressioni o ingiustizie così gravi che, potendo, avrebbe voluto rispondere con una violenza ancora maggiore.
Così, oggi, gli abitanti della Striscia di Gaza che da molti anni subiscono soprusi da parte di Israele, non ritengono affatto sproporzionato lanciare 4 mila missili in un giorno contro il nemico provocando centinaia di morti innocenti, né inseguire decine di adolescenti che danzano nel deserto per falcidiarli col mitra, o trasformarli in ostaggi da usare come scudi umani quando verrà il momento di farlo. Viceversa, molti israeliani non ritengono esagerato radere al suolo la Striscia di Gaza, facendo strame, se necessario, anche di donne, vecchi e bambini. O spegnere luce, acqua e gas e interrompere l’erogazione di cibo all’intera popolazione, come in un assedio neo-medievale che si ritorce contro i tagliagole tanto quanto i neonati.
Eccolo, l’algoritmo del male. Più lo subisci e più lo fai. L’offesa subita si moltiplica geometricamente nel momento in cui hai l’occasione di replicare. Il male, qui, non segue la legge del taglione (occhio per occhio, dente per dente), ma quella della vendetta senza limiti. Non c’entra lo «scontro di civiltà» teorizzato da Samuel Huntington. Non è una battaglia tra i figli della Torah e i seguaci del Corano. Semmai, visto che si parla di popoli che costruiscono gran parte della propria identità sulla religione, si tratta di scontro tra opposti tradimenti valoriali delle rispettive civiltà: ci vuole un bel coraggio a macchiarsi di sangue in quel modo in nome di un Dio di giustizia e di misericordia. È quindi uno scontro tra opposte barbarie, un gioco al massacro che non sembra contemplare neppure lo jus in bello, le convenzioni di Ginevra, i diritti minimi indispensabili che valgono anche nei peggiori tempi di tregenda, primo fra tutti l’intangibilità dei civili (e soprattutto dei bambini). Tolti quelli, possiamo anche smettere di definirci umani.