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Gastronomia - La triade di principi dell’arte culinaria passa dalla salute al piacere
Che cos’è la cucina? La risposta la scrivo sotto ma per un attimo provate a rispondere. Provato? Va bene. Allora, la mia definizione, condivisa con tanti altri, si riassume in tre concetti: anzitutto significa rendere commestibili cibi che altrimenti non lo sono: una patata cruda non serve a niente. In secondo luogo, è sinonimo di sanificazione: nei secoli c’è stata la giusta percezione che il cotto fosse più sano del crudo; dati alla mano, le infezioni alimentari sono nella storia la prima causa di morte, più della guerra, più della peste, per cui si ritiene ormai più che verificata questa percezione. Il terzo principio fondamentale che definisce la «cucina» infine è: rendere buoni i piatti.
È inutile disquisire qui cosa voglia dire buono, è un concetto figlio di mille parametri sociali e culturali. Però tutti noi diciamo, a volte: ma come è buono questo piatto. Altre volte no.
Quando nasce la ricerca della bontà? Di certo il crudo degli antenati, mammut incluso, non era classificabile come buono. E gli spiedi e la brace, successiva, neanche: sanificava bene ma via, come poter godere di una pietanza senza che ci si metta almeno un pizzico di sale? Eccezioni a parte, come sempre.
Allora quando nasce? Nel libro di un grande antropologo, Marcel Detienne, Dioniso e la pantera profumata è scritto: «Tra l’arrosto e il bollito, entrambi modalità del cotto, corre la stessa distanza che tra il crudo e il cotto. Allo stesso modo in cui il cotto distingue l’uomo dall’animale che mangia cibi crudi, il bollito separa il vero “civilizzato” dal villano, condannato alle pietanze alla griglia. Il bollito viene sempre dopo l’arrosto».
Il buon Marcel aveva ragione, ma fino a un certo punto. In fondo, cuocere farina in acqua per fare una polenta (per millenni, alimentazione base in mezzo mondo), oppure bollire un pollo in acqua (sospetto, inizialmente e per lungo tempo, senza l’aggiunta di cipolla, carota e sedano), non può essere definita «cucina buona», anche se ci avviciniamo.
No, per me la cucina diventa buona quando i cuochi impararono due cose: a mescolare ingredienti diversi nello stesso piatto e ad arricchirlo con fondi e salse. Allora nasce la cucina come la si intende oggi.
Definire fondi e salse è virtualmente impossibile ma proviamoci. I fondi, termine generico, sono delle preparazioni base, che servono poi ad arricchire i piatti. In linea di massima sono i brodi, i fondi di carni varie e di pesci e crostacei, ma anche essenze varie. Servono a una cosa: dare profondità e spessore a una preparazione.
«Fondo» significa due cose. La prima è il liquido denso che si forma in una casseruola con il succo della carne e dei condimenti che vi si fanno cuocere; e serve per lo più, opportunamente lavorato, come accompagnamento del piatto. La seconda, da conserva, sono carni o pesci (il fondo di pesce si chiama fumetto) fatti, si noti, con gli scarti della preparazione che si sta cucinando, ossi inclusi, e verdure rosolate e tostate in forno e poi cotte a lungo, anche 8 ore, in acqua per essere poi filtrate, sgrassate e addensate.
Cos’è poi una salsa? È una preparazione, evoluzione del fondo, che serve a dare valore a un piatto, che viene nobilitato anche se è aggiunta una dose piccola. Si fa in mille modi diversi, che ovviamente devono essere coerenti con la preparazione dove sarà aggiunta. Questo detto, di una cosa sono certo: senza buoni fondi e buone salse, la buona cucina non c’è.
Sia dato onore al primo cuciniere o cuciniera della storia che, cuocendo l’onnipresente polenta di cereali misti, aggiunse una manciata di erbe cotte e pestate.
