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La Terra e la sfida dei nuovi deserti
Convenzione ONU: un altro modo di intendere la degradazione dei suoli; dalla desertificazione alle fragilità di pascoli e praterie
Loris Fedele
Quando ci interessiamo alle problematiche discusse ogni tot anni dalle COP, le Conferenze mondiali delle Parti promosse dall’ONU fin dalla famosa Conferenza di Rio del 1992, ci riferiamo quasi sempre alle COP che riguardano i cambiamenti climatici. Forse è inevitabile, perché è il tema ambientale del momento, che coinvolge tutti. Però è giusto ricordare che i principali trattati conosciuti sotto il nome di Convenzione di Rio in realtà sono tre: oltre a quello del cambiamento climatico (in sigla UNFCCC), che promuove i discorsi sul CO2 e sul riscaldamento globale al quale contribuisce l’azione dell’uomo, ci sono una Convenzione sulla diversità biologica (UNCBD) e una Convenzione delle Nazioni Unite sulla lotta contro la desertificazione (UNCCD).
Un piano d’azione per combattere la desertificazione era già stato proposto dall’ONU nel 1977, che aveva riconosciuto il fenomeno come uno dei maggiori problemi economici, sociali e ambientali in diversi Paesi africani, asiatici e dell’America latina. La Conferenza di Rio aveva rilanciato il tema e, due anni dopo, a Parigi, nasceva ufficialmente questa terza Convenzione di portata mondiale. Essa identificava la desertificazione come «il degrado delle terre nelle zone aride, semiaride e subumide, causato principalmente dalle attività umane e dal cambiamento climatico» e quindi coinvolgeva criticamente l’umanità e il suo agire.
Da allora, il concetto di desertificazione non si riferisce più al naturale processo di espansione dei deserti esistenti, ma si è progressivamente spostato sul tema dell’impoverimento dei suoli e sul degrado delle terre soggette a sovrasfruttamento e all’uso non appropriato che se ne fa.
La traduzione in atto dei dettami di quest’ultima convenzione non ha mai avuto vita facile, soprattutto perché la Convenzione non ha un carattere vincolante per gli Stati, che sono sovrani per l’uso delle loro terre e per le loro scelte politiche, economiche e sociali. Si possono suggerire loro delle azioni, ma non imporle, anche se oltre 170 Paesi hanno firmato la Convenzione per combattere la desertificazione.
La conseguenza, negli ultimi anni e sempre di più, si è tradotta in un degrado che ha fatto perdere ogni anno almeno 100 milioni di ettari di terre sane e produttive. Cifre che risultano dalle stime ufficiali dei tecnici della Convenzione per la lotta alla desertificazione (UNCCD), presentate in un recente rapporto. Quest’anno, dal 2 al 13 dicembre, si terrà a Riyad, in Arabia Saudita, la sedicesima Conferenza delle Parti (COP16) della UNCCD, che celebrerà anche il 30° anniversario della Convenzione.
Gli addetti ai lavori anticipano già che l’impegno preso a suo tempo deve trasformarsi urgentemente in azione, perché la siccità, con i cambiamenti climatici, è onnipresente e oltre ai noti Paesi in via di sviluppo sta colpendo anche quelli più sviluppati. La siccità innesca grossi problemi idrici, transitori e permanenti, perfino nelle grandi città. Oltre un miliardo e mezzo di persone viene coinvolto, con spese che a livello mondiale negli ultimi anni superano i 125 miliardi di dollari. È indispensabile imparare a gestire i rischi con sistemi di sorveglianza e allerta precoce, con la valutazione della vulnerabilità e dell’impatto che ne potrebbe conseguire, applicando misure di attenuazione dove possibile.
È chiaro che il degrado dei suoli risulti maggiormente irreversibile nelle zone che sono già in origine aride o semi-aride. Ma è anche conseguenza di cambiamenti nell’uso delle terre e dello sfruttamento eccessivo di certe aree, che comprendono zone alle quali di solito si pensa poco, come le savane, le zone cespugliose, quelle umide, la tundra, la pampa. Sono terre spesso montuose, che coprono circa la metà della Terra. Parlando di desertificazione si pensa di rado alla vulnerabilità dei pascoli. Ma proprio il citato rapporto della UNCCD ci ricorda che il 50% dei pascoli mondiali sono degradati.
I sintomi del problema includono la perdita di fertilità del suolo e dei nutrienti, l’erosione, la salinizzazione, la perdita di biodiversità. Nel rapporto si denuncia che troppi pascoli sono diventati terreni coltivati, magari in zone poco idonee, oppure hanno subito cambiamenti di destinazione a causa della crescita della popolazione e dell’espansione urbana. Politiche di sfruttamento eccessive hanno giocato un ruolo nefasto in questo senso. In alcuni contesti, tanto è cambiato, e forse troppo in fretta. Stanno sparendo pratiche antiche, che erano in armonia con l’ambiente e dall’impatto limitato.
Alla COP16 di Riyad, il prossimo dicembre, si parlerà di momento cruciale per un’azione politica mirante a proteggere le praterie e i terreni agricoli esistenti. Si cita la Mongolia e non a caso, perché ci sarà un seguito: la Mongolia è già stata designata per ospitare la prossima Conferenza delle Parti dell’UNCCD (COP17) nel 2026. Si sa che lì e in Asia Centrale il 60% della superficie è utilizzato per pascolo e allevamento del bestiame: quasi un terzo della popolazione ne è dipendente. Politiche scarsamente pensate e sostenute hanno impoverito i suoli minando la sicurezza alimentare locale e la produttività. Si chiede un approccio innovativo.
Il rapporto dell’UNCCD denuncia anche la carenza di dati affidabili sulle terre montuose e invita i politici di questi luoghi a stabilizzare, ripristinare e gestire i pascoli tradizionali, coinvolgendo attivamente la comunità senza calare dall’alto soluzioni preconfezionate. Asia centrale, Cina e Mongolia dovrebbero operare in tal senso. Si chiede inoltre che si traggano le dovute lezioni dai passi falsi commessi in passato in varie parti del mondo, facendo anche tesoro delle esperienze altrui. Tra le raccomandazioni vi è quella di proteggere la pastorizia nomade, una pratica e uno stile di vita vecchio di millenni.
Sappiamo che si vorrebbe operare così anche in Africa. Purtroppo nel Sahel e nell’Africa occidentale i conflitti e le lotte di potere hanno interrotto da tempo la mobilità del bestiame, portando a un degrado dei suoli e della qualità di vita dei pastori. Nel Sud America la deforestazione legata all’agricoltura e alle pratiche estrattive e minerarie stanno pesantemente impoverendo i suoli e incrementando la desertificazione. Il danno avrà conseguenze planetarie e necessita di essere fronteggiato con misure urgenti. Nel Nord America il degrado delle antiche praterie e dei pascoli secchi minaccia da tempo la biodiversità degli iconici ecosistemi, come le praterie di erba alta e i deserti meridionali, dove abbiamo perso qualcosa di prezioso.
Forse solo l’incorporazione delle popolazioni indigene nella gestione potrebbe riportare al recupero di antichi valori. Anche l’Europa dovrà porre attenzione ai propri ecosistemi, così come il Sudafrica e l’Australia. Politica ed economia devono tener conto delle evidenze scientifiche e agire senza spingere la speculazione ma favorendo la qualità di vita.