Becca Levy, Breaking the Age Code: How Your Beliefs About Aging Determine How Long and Well You Live


Una nuova idea di vecchiaia

Ageismo - Cambiare il modo in cui si pensa all’età allunga l’aspettativa di vita, lo sostiene la psicologa Becca Levy nel suo ultimo libro
/ 04.07.2022
di Stefania Prandi

È stato dopo un viaggio in Giappone che Becca Levy, psicologa, epidemiologa e docente a Yale, ha iniziato a capire che il modo in cui la società considera gli anziani può avere un impatto sull’aspettativa di vita della popolazione nel suo complesso. Nel paese del Sol Levante «i centenari vengono trattati come rockstar», per usare le parole di una sua intervista a «The New York Times». Osservando la stima e il rispetto riservati alle persone più vecchie, Levy si è resa conto di un legame tra quell’atteggiamento e la longevità nipponica, record assoluto nel mondo. Da allora ha approfondito la sua intuizione pubblicando centoquaranta articoli, in trent’anni, e un libro, uscito lo scorso aprile, intitolato Breaking the Age Code: How Your Beliefs About Aging Determine How Long and Well You Live (Infrangere il codice dell’età. Come le credenze sull’invecchiamento determinano quanto e come si vive).

Mezzo secolo fa Robert N. Butler, psichiatra, gerontologo, direttore e fondatore del National Institute on Aging coniò il termine «ageismo». L’anglicismo ha impiegato un po’ di anni per farsi strada nella lingua italiana: fa eco a «sessismo» e «razzismo» e serve per descrivere gli stereotipi e la discriminazione nei confronti degli anziani. Levy è stata in contatto con Butler fino a quando è morto, nel 2010, ed è riuscita a dimostrare, con i suoi studi, che i sentimenti negativi della società nei confronti della vecchiaia hanno effetti simili a quelli su altri gruppi discriminati, come le donne e le persone nere.

Ogni autunno, quando inizia l’anno accademico, la docente di Yale chiede ai suoi studenti di immaginare una persona attempata e di comunicare le prime cinque definizioni che vengono loro in mente. Poi scrive le risposte su una lavagna. Tra queste ci sono parole di ammirazione come «saggezza» e «creatività», ma anche «senilità», «incurvato», «malato» e «decrepito».

Becca Levy e il suo team di ricercatori hanno misurato l’atteggiamento nei confronti dell’invecchiamento in vari modi. Hanno usato questionari, classificato i pregiudizi con programmi informatici, osservato il comportamento di piccoli gruppi e analizzato le cartelle cliniche di migliaia di persone attraverso grandi indagini nazionali. Grazie ai loro sforzi, si è scoperto che, oltre a ridurre la longevità, l’ageismo è associato a un peggioramento generale della salute.

L’aspetto forse più interessante di questi studi è che i pregiudizi condizionano le vite non soltanto dall’esterno, ma dall’interno. Infatti, vengono interiorizzati e diventano il metro per valutare e immaginare la propria esistenza. Utilizzando le cartelle cliniche di quasi quattrocento donne e uomini sotto i cinquant’anni, fornite dal Baltimore Longitudinal Study of Aging, sono stati in grado di seguire un campione rappresentativo per quarant’anni. Hanno visto che il rischio di problemi cardiaci raddoppiava se, da giovani, le persone avevano assorbito stereotipi negativi sull’età. In un’altra ricerca, condotta sui residenti di New Haven con oltre settant’anni, è stato notato come i soggetti con convinzioni positive sulla senescenza avevano maggiori probabilità di ristabilirsi completamente dopo una grave disabilità rispetto a chi aveva pensieri pessimisti.

E ancora, Levy e i suoi assistenti hanno analizzato i dati di 660 individui over cinquanta che hanno partecipato all’Ohio Longitudinal Study of Aging and Retirement (OLSAR). Mettendo in relazione i risultati dell’OLSAR con quelli sulla mortalità del National Death Index, è emerso che chi aveva una percezione positiva dello scorrere del tempo viveva sette e anni e mezzo in più di chi invece vedeva l’invecchiamento sotto una cattiva luce. Chiaramente non basta essere ottimisti per non morire presto, ma sicuramente la connessione corpo-mente conta molto. Un altro esempio: un campione di persone di mezza età senza deficit cognitivi, ma con una visione disfattista della vecchiaia, ha dimostrato di avere maggiori probabilità di sviluppare alterazioni cerebrali associate all’Alzheimer. E più negativi erano i loro pensieri e peggiori erano le conseguenze.

Secondo Patricia Boyle, neuropsicologa e scienziata comportamentale, docente al Rush University Medical Center, dare un significato alla propria vita può fornire vantaggi incredibili per la salute. Tra questi, meno probabilità di soffrire di mortalità precoce, di avere un ictus, di sviluppare il morbo di Alzheimer e di andare incontro a un forte declino cognitivo.

Il significato non deve essere per forza complicato o ambizioso, ma serve a sentirsi realizzati. Per citare un’altra indagine di Levy e del suo team, tra cento ottantunenni, il gruppo esposto settimanalmente, per un mese, a stereotipi positivi impliciti ha ottenuto risultati migliori nei test di andatura, forza ed equilibrio. I miglioramenti sono stati maggiori rispetto ai risultati di un gruppo di coetanei che ha svolto attività fisica per sei mesi.

Non soltanto, come scrive «The New York Times», assorbiamo gli stereotipi fin da quando siamo piccoli, attraverso i ritratti denigratori dei media e le favole sulle vecchie streghe malvagie. Pure le istituzioni – i datori di lavoro, le organizzazioni sanitarie, le politiche abitative – trasmettono un pregiudizio simile, mettendo in atto quello che viene definito «ageismo strutturale».

Per invertire la tendenza, secondo Levy, sono necessari cambiamenti radicali, un «movimento di liberazione dall’età». Utilizzando le stesse tecniche che misurano gli atteggiamenti stereotipati, il suo team è riuscito a migliorare l’autostima delle persone anziane. I ricercatori di molti altri Paesi hanno replicato i loro risultati. «Le convinzioni non si creano, ma si possono attivare», ha detto Levy, stimolando le persone con parole come «dinamico» e «pieno di vita», invece di «scontroso» o «indifeso». Anche se i bambini hanno già dei pregiudizi fin nei primi anni, non sono incisi nella pietra: «Sono malleabili, possiamo modificarli».